Le Interviste

  1. Marzia Tomasin
  2. Manfredi Calabrò
  3. Florindo Rubettino
  4. Gianfranco Gentile
  5. Daniela Brignone
  6. Marco Montemaggi
  7. Tiziana Sartori e Stefano Russo
  8. Massimo Orlandini
  9. Noell Maggini
  10. Alessandro Carlorosi
  11. Valentina Barbieri e Luca Borghini
  12. Massimo Gatta
  13. Elisa Fulco
  14. Eleonora Calavalle
  15. Antonio Alunni
  16. Ascanio Balbo di Vinadio
  17. Antonio Felice Uricchio
  18. Fabio Lucidi

 

 

 

Una meta-missione per l’Università

Intervista al Prorettore Fabio Lucidi

a cura di Paolo Brescia

 

Il Prof. Fabio Lucidi, Prorettore alla Quarta Missione ed ai rapporti con la comunità studentesca, ha risposto ad alcune domande sulle missioni emergenti dell’università e sul percorso che ha portato Sapienza a dedicare un Prorettorato alla Quarta Missione. L’intervista si inserisce nel contesto di uno studio sull’impatto sociale delle istituzioni accademiche in Italia e in ambito europeo, promosso dal Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale e recentemente presentato all’ECREA Conference 2023 di Lisbona The normative imperative: socio-political challenges of strategic and organisational communication.

La ricerca, tutt’oggi in corso, è curata dalla coordinatrice di BiblHuB, prof.ssa Valentina Martino, insieme a Lucia D’Ambrosi, professoressa associata, e Paolo Brescia, dottorando del CoRiS.

Di seguito la trascrizione dell’intervista, condotta da Paolo Brescia il 30 marzo 2023.

 

 

Prof. Lucidi, in cosa consiste il suo ruolo in Ateneo e da quanto lo ricopre? Ha avuto altri incarichi di governo in passato? La sua esperienza e formazione accademica sono coerenti alla delega che ha assunto?

 

Il 1° novembre del 2022 ho terminato il mio incarico di Preside della Facoltà di Medicina e Psicologia, e qualche giorno dopo la Magnifica Rettrice mi ha affidato  l’incarico di prorettore alla Quarta Missione ed ai rapporti con la comunità studentesca.

Ho una formazione in Psicologia, i miei interessi di ricerca riguardano prevalentemente la Psicometria. Sono particolarmente interessato alla valutazione dei predittori del comportamento umano, cercando di valutare come questo sia legato a processi di autoregolamentazione e a sistemi di vincoli, e alla necessità di misurarli. Inoltre sono interessato a capire come le differenze individuali si trasformano in sistemi che non necessariamente si associano solo ad opportunità o a vantaggi. Partendo anche da queste basi, in Ateneo abbiamo creato prima un Comitato tecnico scientifico, su “Diversità e principi dell’inclusione”, grazie alla consapevolezza della ricchezza della comunità eterogenea di Sapienza, le cui differenze non devono diventare disuguaglianze.

Si tratta di un’operazione che è semplice a dirsi ma complicata a monitorarsi, perchè già è complesso tenere il sistema, con 5 mila docenti e altrettanto personale, 120 mila studenti. Se è difficile mappare le differenze, è ancora più difficile valutare le volte in cui queste differenze diventano disuguaglianze. Alcune differenze sono codificate (salute, genere, differenze di background migratorio, status socio economico), mentre altre non lo sono affatto (differenze per condizioni familiari e individuali di partenza, possesso di sistemi di requisiti che determinano probabilità differenti di successo accademico, ecc.). Un’Università come Sapienza intende dare a chiunque i sistemi di competenze necessari per un percorso universitario di successo, per un motivo di vantaggio sociale. In un paese come il nostro, che ha un basso tasso di laureati, abbiamo bisogno di facilitare il successo accademico, posto che esso si associ a impegno dei singoli e disponibilità a colmare le lacune di base. 

 

Alla Sapienza, l’incarico che le è stato conferito è valorizzato a sufficienza? Con quali organi di governo si relaziona maggiormente nella funzione del suo mandato? Partecipa alla stesura del Piano strategico?

 

Il mandato della Magnifica Rettrice Polimeni si è caratterizzato per l'attenzione alla Quarta missione. Il tema non ha un vocabolario condiviso, ma è una locuzione che la Rettrice ha introdotto nella sua prima prolusione all’inizio del mandato, definendo come Quarta Missione delle università, in particolare di Sapienza, quella di fare in modo che qualunque diversità si associ al valore e non alle disuguaglianze.

Da quella prolusione c’è stata una serie di passi per arrivare ad un Prorettorato: il primo - come dicevo - è stato la costruzione di un comitato tecnico-scientifico, con lo scopo di garantire una massa critica a supporto dell’azione strategica. La Quarta Missione non è autonoma, né può entrare nello spazio di segmentazione delle altre missioni: è una “meta-missione”. Posso fare a tal proposito degli esempi di Quarta Missione: il counseling, i counseling sanitari “Sapienza Salute”, la didattica inclusiva, le relazioni con Prorettorato all’internazionalizzazione, i corridoi umanitari. La Quarta Missione è trasversale a vari ambiti. C’è un piano di ricerca; c’è un tema di legge; c’è un tema economico; c’è un piano pedagogico, ci sono elementi di tutela della salute, architettonici (le barriere per esempio), c’è un piano delle scienze (la genetica), uno delle ingegnerie (le nuove tecnologie per abbattere le differenze), uno della comunicazione (per comunicare le differenze individuali in modo efficace). Il tutto si fa per intercettare didattica e ricerca. Questo è il nostro lavoro.

Per quanto riguarda il piano strategico, non ho collaborato direttamente perché la delega è arrivata post-piano strategico. Tuttavia, sì, ho collaborato sostanzialmente, perché l’ateneo nel suo Piano più volte cita la Quarta Missione quale elemento condiviso da tutta la governance, inserendo dunque il tema ancora prima di nominare effettivamente il Prorettore.

 

Quali sono le linee strategiche di sviluppo e gli obiettivi principali della Terza Missione? Mentre, la Quarta Missione è stata istituzionalizzata in Sapienza?

 

L’istituzione di un Prorettorato e non solo di una delega: credo che istituzionalizzare la Quarta Missione sia stata un’iniziativa innovativa dell’Ateneo. Anche il tema della linea strategica - l’ho accennato prima - è fondamentale: si mira così a unificare le politiche di inclusione in un quadro unitario. Non facciamo lavori separati, uno sul benessere, uno sulla disabilità, uno sulle opportunità economiche etc.; mettiamo insieme gli ambiti in un unico percorso, trasformandoli in una azione comune, sia di ricerca che di didattica. 

Quali sono i principali aspetti di continuità tra la Terza e la Quarta Missione universitaria? E quali, invece, i principali aspetti di distinzione?

 

La Terza fa riferimento sostanzialmente a un tema che si differenzia tra ricerca e didattica, e guarda al contesto territoriale esterno alle università, la Quarta è trasversale a tutte e guarda con prevalenza alla stessa comunità Sapienza, perché il primo contesto dove le differenze non devono diventare disuguaglianze è proprio il nostro. Su questo penso anche che le mie due deleghe siano molto coerenti tra loro. I principi su cui si fonda sono l’equità (che non vuol dire uguaglianza, ma rispetto delle differenze) e l’inclusione. 

 

Quali sono, nella sua visione, le maggiori sfide che gli Atenei italiani sono chiamati ad affrontare nell’esercizio della Terza e Quarta Missione? Quali le maggiori opportunità e difficoltà per gli atenei?

 

La prima sfida che gli atenei italiani devono affrontare è quella della denatalità: con un così basso livello nel numero degli iscritti, con un percorso di denatalità così importante, saremo in grande difficoltà. Rischiamo di trovarci università spopolate, in un paese che ha giovani sempre meno qualificati e sempre più intenzionati ad un percorso verso l’estero. La perdita delle competenze sarebbe insostenibile per il paese.

Questo ci riporta al tema dell’inclusione, c’è una ragione se il numero di studenti universitari italiani è così basso; non possiamo solo attribuire le colpe alle scelte sbagliate dei giovani, ci deve essere un qualche sistema percettivo che porta a considerare la formazione universitaria come un sistema non per tutti. Per contrasto ci deve essere più orientamento per far capire la validità del percorso, poi gli studenti devono trovare quello che noi gli abbiamo promesso: un ambiente capace di valorizzare le diverse caratteristiche individuali, di compensare i limiti, senza escludere coloro che hanno uno svantaggio sociale di partenza o provengono da percorsi formativi difficili, accogliendo anche quelli a basso reddito, assumendo una definizione di studente capace e meritevole anche più ampia di quella in vigore. La distinzione tra capaci e meritevoli rimanda, infatti, sia alla capacità performativa, sia alla dimensione dell'accoglienza dei meritevoli. 

In che misura, a suo avviso, la Quarta Missione introduce dimensioni realmente innovative nel governo dell’Università? E quanto, invece, si ricollega alla tradizione e allo storico mandato degli atenei? È possibile ravvisare differenze significative con il panorama estero?

 

Continuo a credere che il nostro sistema accademico pubblico e universalistico sia un panorama ancora piuttosto aperto rispetto ad altri contesti occidentali. Le università italiane non hanno da invidiare in termini di inclusività, a partire dalle tasse di iscrizione. Conosciamo i ranking delle università: se li mettiamo in relazione ai costi vediamo come il nostro è un panorama accessibile, ma, se li confrontiamo con gli atenei internazionali, le istituzioni accademiche straniere offrono numerosissime facilities.

Sapienza sta lavorando su più fronti per garantire servizi integrativi (Sapienza Sport, Centro Linguistico di Ateneo, Sapienza Salute, ecc), altri li abbiamo in cantiere (Mentorship, tutorship, ecc), Su questo all'estero c'è maggiore expertise, è uno degli elementi innovativi.

Nelle università italiane si sta cercando di andare al di là dei soli apprendimenti delle discipline, provando a creare un sistema di servizi alle comunità accademiche. Ritengo, però, che su questi aspetti ci sia ancora da fare, sia a livello di Università, sia a livello di sistema, quindi con l’Azione della Crui e del Ministero dell’Università e della Ricerca.

Quali stakeholder principali sono coinvolti nella Terza (e Quarta) Missione? E che ruolo hanno gli studenti?

 

Il piano su cui abbiamo costruito le azioni necessarie per l’inclusione è stato il Comitato tecnico-scientifico “Diversità e principi dell’inclusione”, di cui sono stato coordinatore, dove è forte e presente la rappresentanza degli studenti. Nel mio ruolo, parte integrante è ascoltare costantemente le esigenze che i rappresentanti degli studenti negli organi centrali hanno da esprimere. Capita spesso che le indicazioni della comunità studentesca non facciano riferimento a difficoltà generali, che possono comunque capitare, quanto invece a specifiche disuguaglianze che singoli studenti sono chiamati a subire: parliamo per esempio del genere, o della dimensione socio-economica, del background migratorio, del credo religioso, dell’identità di genere. 

Quali iniziative e attività di public engagement sono maggiormente valorizzate nella promozione della conoscenza e dello sviluppo sostenibile?

 

Dentro gli obiettivi di sviluppo sostenibile ci sono una serie di obiettivi connessi con il tema della Quarta Missione, per esempio la parità di genere (obiettivo 5), o il tema della salute e del benessere (obiettivo 3), secondo le priorità dell’Agenda 2030.

Il problema non è se l’uno sia il cappello dell’altro o viceversa, ma se il percorso verso la sostenibilità sia anche il percorso verso un mondo più equo: sono tutti elementi che hanno forti legami di interconnessione. Quello che fa Sapienza è costruire un percorso trasversale, convogliando tutta la sua comunità. 

Nell’esercizio della Terza e Quarta Missione, che ruolo spetta alla comunicazione e al coinvolgimento degli stakeholder interni/esterni? La Sapienza si è dotata di strumenti per far conoscere efficacemente all'interno e all'esterno le sue attività di Terza e Quarta Missione? Ci sono pagine web e profili social dell'università dedicati alla Terza e Quarta Missione?

 

Molte delle circostanze che portano una differenza a diventare “disuguaglianza”, nelle organizzazioni, nei sistemi educativi, ecc., sono stereotipi. Il nostro obiettivo è quindi lavorare sugli aspetti culturali, e a questo bersaglio non si punta solo promuovendo azioni, ma anche e soprattutto costruendo e una parte di questo processo passa per la comunicazione. 
In Sapienza c’è una pagina per la Terza Missione sul sito di ogni struttura dipartimentale, che rende pubbliche ed evidenti le attività; inoltre, c'è una pagina molto simile per la sostenibilità, con una homepage che abbiamo chiamato “Sapienza sostenibile”, poi una seconda pagina impostata in modo simile a quest’ultima, dal nome “Sapienza inclusiva”, che tiene conto di tutte attività di promozione della Quarta Missione (comprese le iniziative di comunicazione, come convegni o congressi), rendendo conto di una enorme massa critica di attività. Questa pagina viene gestita dall'ufficio Comunicazione, ma la responsabilità politica di quella parte è mia, insieme alla prof.ssa Nocenzi: dunque ho un ruolo attivo in questo.

 

 

 

L’effetto Anvur sull’impatto sociale delle Università

Intervista al prof. Antonio Felice Uricchio (Presidente ANVUR)

 Il Prof. Antonio Felice Uricchio, Presidente dell’ANVUR – Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca, ha risposto ad alcune nostre domande sulle missioni emergenti dell’Università e, in particolare, sulle evoluzioni che hanno portato l’ANVUR ad avviare una valutazione dell’impatto sociale degli atenei. L’intervista si inserisce nel contesto di uno studio sulla missione sociale delle istituzioni accademiche in Italia e in ambito europeo, promosso dal Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale e recentemente presentato all’ECREA Conference 2023 di Lisbona The normative imperative: socio-political challenges of strategic and organisational communication.

La ricerca, tutt’oggi in corso, è curata dalla coordinatrice di BiblHuB, Prof.ssa Valentina Martino, insieme a Lucia D’Ambrosi, professoressa associata, e Paolo Brescia, dottorando del CoRiS.

 

Di seguito la trascrizione dell’intervista svolta il 18 maggio 2023.

 

 Prof. Uricchio, per noi è molto importante ricostruire lo stato dell’arte delle missioni dell’Università a partire dalla prospettiva ANVUR, per comprendere il punto di vista e gli obiettivi della valutazione pubblica degli atenei.

Inizio con il dire che sono in ANVUR da 3 anni, ho partecipato alla Valutazione della Qualità della Ricerca 2015-2019 (VQR3). Prima dell’esperienza in Agenzia, sono stato Rettore dell’Università di Bari, maturando un’esperienza sul campo. Dal mio osservatorio ho potuto apprezzare quell’attività sul territorio, destinata a generare valore pubblico, di cui le università oggi assumono sempre maggiore consapevolezza.

ANVUR è un'agenzia giovane, se confrontata con altre agenzie europee: di fatto è un “bambinetto” che ha poco più di dieci anni. Nella prima fase di lavoro dell’ANVUR, l'attività valutativa ha puntato alla comprensione del fenomeno; nella VQR3 finalmente la terza missione ha avuto un peso anche rispetto alla distribuzione delle risorse (5% del FFO), all’esito della valutazione. Non è stata, quindi, solo una valutazione conoscitiva, ma anche proiettata all’attribuzione della quota premiale, con effetti importanti.

Rispetto al passato la VQR3 ha subito un’evoluzione, definendo i “campi d’azione” e declinando le metodologie valutative anche alla luce dei criteri proposti dalle sedi e definiti dalle Commissioni di Esperti della Valutazione (CEV). L’attività di valutazione ha privilegiato, in particolare, tre ambiti molto rilevanti: gli obiettivi dell’Agenda 2030, l’inclusione, e l’open science.

Quello che abbiamo apprezzato è un rilevante impegno delle università, già emerso dalla scheda SUA di terza missione che aveva avviato il censimento e monitoraggio delle attività. Anche lo stimolo della quota premiale ha generato risultati ma – al di là dell'aspetto finanziario – a fare la differenza sono state consapevolezza e responsabilità. Responsabilità sociale.

D’altronde, sebbene avessimo limitato i casi studio da presentare attraverso i già citati campi d’azione, le azioni indicate sono state quantitativamente superiori. Le università hanno raccolto molti più casi studio rispetto a quelli indicati per la valutazione. Il fermento è stato davvero importante.

Siamo, inoltre, rimasti colpiti dagli esiti e, soprattutto, dalla rilevanza di alcuni campi d’azione destinati alle attività di Public Engagement (PE). L’attenzione degli atenei per tali azioni “innovative” è risultata maggiore che per attività consolidate e tradizionali, come quelle basate sul trasferimento tecnologico. Abbiamo quindi iniziato a ricondurre le attività di terza missione a due sottocategorie: quelle legate, per l’appunto, alla valorizzazione dei prodotti della ricerca, e quelle di impatto sociale, in cui la ricerca si coniuga con il territorio e genera dei risultati di valenza sociale. Per quest’ultima sottocategoria abbiamo utilizzato la dicitura “terza missione / impatto sociale”.

Abbiamo avviato anche una riflessione con il Ministero in vista della VQR4 e siamo impegnati ulteriormente in direzione di riconoscere un maggiore spazio alla quota premiale. Vedremo che indicazioni il Ministero vorrà darci in questo senso, siamo ancora all’inizio.

Rispetto al sistema Autovalutazione, Valutazione periodica, Accreditamento (AVA), invece, stiamo iniziando la valutazione delle sedi in base alle Linee Guida per il Sistema di Assicurazione della Qualità negli Atenei (AVA3). In AVA 3 abbiamo ulteriormente promosso il modello delle policy di ateneo, anche con riferimento alla terza missione.

Il modello AVA è più complesso della VQR: viene infatti presa in considerazione la governance universitaria in toto e, andando più a fondo, abbiamo voluto valutare le azioni e le strategie in tale contesto, considerando come una parte fondamentale la terza missione e l’impatto sociale.

 

Secondo lei, per il futuro, terza missione e impatto sociale andranno a convergere?

La terza missione ha ancora una valenza residuale (tutto ciò che non è ricerca e didattica), ma ha una pluralità di anime: quella del trasferimento tecnologico, con ciò che comporta, delle infrastrutture di ricerca, etc.; e poi la componente dell'impatto sociale, dove la ricerca è generativa. L’impatto è, infatti, l’insieme degli effetti che l’attività di ricerca e l’impegno produce nei contesti territoriali locali, nazionali e internazionali, considerando un ambito di riferimento non circoscritto, ma ampio. La pluralità degli ambiti di interesse può determinare una disaggregazione: si parla di terza e quarta missione, ma stiamo riflettendo anche di fronte alle nuove linee guida della VQR4 di lasciare per esempio campi liberi, di arricchire alcuni campi, di compattarne altri.

Da questo punto di vista, l’esperienza dei casi studio ci è sembrata una soluzione positiva. Avevamo altre possibilità, ma abbiamo scelto questa soluzione anche in base ad un confronto con altre università estere, abbastanza rappresentative delle esperienze che le università riescono a promuovere. I campi d’azione sono stati 10 nella prima fase. Vedremo come strutturare la terza missione e l'impatto nella VQR4.

Abbiamo proposto un modello di valutazione partecipato e condiviso, presentando i percorsi, raccogliendo sollecitazioni, idee e stimoli, perché siamo convinti che la valutazione sia un processo, basato su valori e criteri che si definiscono nel percorso di sviluppo delle diverse azioni. Abbiamo poi avviato un confronto a livello internazionale, in Europa ma anche in altri continenti, come in Sud America.

 

E la cosiddetta “quarta missione”?

La scelta di ANVUR è di parlare di terza missione e impatto sociale, non ritenendo di scomporre una terza e una quarta missione. Ma questo aspetto è ancora da chiarire, le definizioni sono controverse e non univoche.

Abbiamo declinato la definizione di terza missione non solo in termini differenziali rispetto alla didattica e alla ricerca, ma secondo alcuni criteri essenziali che anche nel glossario AVA e nella VQR abbiamo esplicitato, facendo emergere il tema dell’impatto sociale. Il concetto è stato dunque aggregato, proprio perché la restituzione delle azioni che le università sono in grado di offrire ai territori ci è sembrata non trascurabile: significa apprezzare la funzione dell’istituzione e mettere a valore la propria esperienza in funzione dei contesti. Infatti, l'impatto è l'effetto che l’attività di ricerca e universitarie in genere è in grado di produrre.

Dunque, ad oggi non compare nei nostri documenti una definizione univoca, ma in merito all' impatto sociale” abbiamo voluto che fossero le istituzioni a interpretare e valutare.

 

Quali sono elementi di continuità rispetto alle missioni tradizionali?

Certamente, l’università nella sua accezione tradizionale nasce per le missioni della didattica e della ricerca. L’università del Terzo Millennio è sempre più impegnata a dare valore a ricerca e didattica in rapporto ai territori, con la sfida civile, con il mondo delle imprese. L’università non si limita alla sua sfera di interesse, si proietta all’esterno e tesse una relazione virtuosa con il contesto; offre valore e raccoglie valore, in una relazione biunivoca, mettendo a valore la propria conoscenza e l’innovazione. Dunque, si nutre delle esperienze attraverso questa attività generativa.

Quali sono le iniziative intraprese da ANVUR per divulgare la nozione di Impatto?

Come Agenzia, siamo impegnati nella disseminazione di criteri valutativi e nel promuovere una cultura della valutazione aperta. Sono tante le iniziative che stiamo avviando negli atenei e su tutto il territorio nazionale, con eventi sulla terza missione e focus specifici. Riteniamo sfidante questo impegno. Il modello di agenzia burocratica, chiusa nei suoi indicatori, poteva al massimo funzionare nella fase di avvio dell’Agenzia. Oggi l’ANVUR è cresciuto, è molto più presente nel confronto accademico, nella società civile, perché è importante che le esperienze siano corredate da una dimensione partecipativa.

Quali sono, secondo lei, i limiti e i talenti delle Università italiane in riferimento alle missioni emergenti e al tema dell’Impatto?

I talenti sarebbe difficile enumerarli tutti: dall’analisi dei casi di studio emerge un caleidoscopio ricchissimo. Nel passaggio da VQR2 a VQR3 la consapevolezza dell’impatto dell’attività universitaria appare senza dubbio in crescita. L’esito è molto positivo, almeno a mio parere, sia nella consapevolezza che nell’apprezzamento dell’Impatto.

Tuttavia, la terza missione si deve saldare alla ricerca e alla didattica, non deve essere sganciata dal resto. È importante che venga percepita come una missione unitaria, integrata alle altre.

Credo infatti che l’università non debba perdere di vista la sua funzione formativa, di luogo in cui la ricerca si sviluppa in una dimensione olistica. Dove non c’è separazione tra missioni, ma convergenza.

 
 

 

 

 

Riscoprire l’impresa attraverso l’arte: Longo, dall’Industria alle opere di Marco Angelini

Intervista ad Ascanio Balbo di Vinadio

 

Il 22 marzo 2023 la redazione di BiblHuB Sapienza ha avuto il piacere di incontrare e intervistare in Sala Rossa Ascanio Balbo di Vinadio, nipote di Giorgio Longo – ultimo presidente della Longo S.p.A. – azienda leader per decenni nel settore della cancelleria operante fino al 1973, anno della scomparsa del suo fautore.

Dal connubio tra una storia industriale di matrice familiare e la passione per l’arte, nasce il volume LONGO. Dall’Industria alle opere di Marco Angelini (De Luca Editori d’Arte, 2023), donato alla Sapienza e già catalogato all’interno della raccolta BiblHuB, biblioteca specialistica e di ricerca dedicata alla cultura e letteratura d’impresa.

Sebbene l’intervistato non abbia mai conosciuto il nonno, Giorgio Longo, venuto a mancare quindici anni prima della sua nascita, si dichiara estremamente legato alla sua memoria e questo lo ha spinto a progettare un’iniziativa che celebrasse degnamente il proprio avo.

Tutto è cominciato nell’autunno 2021, quando il dott. Balbo ha visitato una mostra dell’artista romano Marco Angelini (laureato in Sociologia alla Sapienza) che utilizza per le sue opere oggetti in disuso. Da lì un’idea: commissionare ad Angelini un’opera da realizzare utilizzando storici materiali di cancelleria della Longo. L’impresa - nonostante l’entusiasmo - ha incontrato diverse difficoltà dato che, dell’ampia produzione della Longo, Ascanio ha ereditato soltanto pochi oggetti tra i quali un righello, qualche pastello, e un paio di gomme. È stato per lui un viaggio di scoperta caratterizzato da una fitta ricerca di oggetti Longo, essenziali – a quel punto – per la realizzazione delle opere. Oggetti che, nel corso del tempo, sono giunti da diversi fonti: web, antiche cartolerie, collezionisti privati etc…

 

In questo viaggio di riscoperta delle proprie radici industriali e familiari, Ascanio è riuscito ad entrare in contatto anche con uno stretto collaboratore del nonno, Benito Augurelli e, tramite questi, ha quindi fatto conoscenza di due ex dipendenti della Longo, Piero Tomassini e Luigi Paselli.

 

Con il trascorrere del tempo, è sorta sempre più l’esigenza di raccontare la storia dell’azienda e delle persone che ne hanno fatto la storia, in chiave emozionale e a un pubblico più vasto. Per realizzare questa volontà, l’arte è stato lo strumento privilegiato: il risultato sono state le quattordici opere contemporanee di Angelini, caratterizzate dalla cristallizzazione dei prodotti di cancelleria Longo sulle diverse tele. Il passo successivo è stato presentarle al pubblico nell’ambito di una mostra incentrata sul marchio Longo, ospitata dal Museo del Patrimonio Industriale di Bologna con il titolo A ciascuno il suo giorno – opere di Marco Angelini ispirate alla storia dell’azienda Longo.

A raccontarcela è il suo curatore, Ascanio Balbo di Vinadio, in una conversazione con la Prof.ssa Valentina Martino alla quale abbiamo avuto il piacere di partecipare.

 

Ci racconta come è nato questo progetto?

Mio nonno, che non ho mai conosciuto, era un grande industriale e la sua azienda era formata da circa 500 dipendenti. Tempo fa, parlando con persone nate prima del 1965, mi sono reso conto che avevano tutti vivissimi ricordi del marchio: dalla gomma da cancellare, alla cinghia per i libri, che all’epoca andava tanto di moda. Sentivo tutti parlare della Longo, ma ciò che io sapevo si limitava al fatto che si trattasse del padre di mia madre e proprio questa frustrazione – di non trovare nulla – mi ha spinto a continuare a cercare. La scintilla è nata dopo aver visto una mostra di Marco Angelini, artista romano, che utilizza materiali in disuso, di vario genere, per dare vita alle proprie creazioni; essendo un amante dell’arte, ho pensato fosse una bellissima idea poter creare qualcosa insieme. Quest'anno, poi, sono esattamente cinquant’anni dalla morte di mio nonno e mi è parso il momento giusto per celebrarlo e ricordarlo.

 

L’artista Angelini aveva già utilizzato materiali Longo nelle sue opere passate?

No, non ne ha mai avuto occasione prima d’ora, ha sempre utilizzato altri materiali. Nello specifico, mi aveva colpito una sua opera, in una sua mostra personale in una galleria romana, per cui aveva usato delle lamette da barba degli anni ’40. Da li ho avuto l’idea di commissionargli un’opera (poi diventate in seguito ben quattordici) realizzata interamente con i vari materiali recuperati della Longo.

Uno dei primi oggetti che gli ho fornito è stata una bottiglia in vetro ancora sigillata degli anni ‘30, contenente gomma arabica – oggi quasi completamente in disuso –ancora marchiata Leonhardi. Questo perché la storia industriale vera e propria dei Longo iniziò nel 1926 (prima, dal 1811 possedevano tipografie, stamperie e anche una cartiera), quando il mio bisnonno Domenico acquistò una vecchissima azienda tedesca di inchiostri, la Leonhardi, appunto. Ci fu prima una italianizzazione con la rimozione dell’”h” e poi, progressivamente, con l’integrazione nuovi prodotti di cancelleria, il marchio Leonardi è stato gradualmente dismesso per lasciare spazio al nuovo marchio, che prendeva il nome appunto dalla famiglia, quello che sarebbe diventato presto iconico, e dal 1954 nasce quindi la Longo SpA.

 

La grafica pop l’ha inserita l’artista o anche questa è d’archivio?

Tutto ciò che è oltre l'oggetto, è il risultato dell’intervento artistico e poliedrico di Marco Angelini.

 

Di suo nonno, invece, cosa ci racconta?

Non ho mai conosciuto mio nonno, ma so che ricopriva diverse cariche istituzionali, in particolare nel campo delle Belle Arti. È stato anche presidente dell'Associazione Francesco Francia ed era amico di grandi artisti; organizzava mostre e donava prodotti per la pittura ai giovani artisti emergenti che non riuscivano a permetterseli… Sono contento che con questo libro rimarrà una testimonianza della sua persona e del suo operato.

Per esempio, quello che generalmente oggi si conosce come Pongo – la cera plastica che utilizzano i bambini – deve il suo nome all’azienda Fila ma in realtà fu inventato precedentemente dalla Longo, con il nome Plasticrom. Lo stesso vale per la Coccoina, colla che ancora si trova in commercio: è nata successivamente alla Collamidina Longo. Giorgio Longo è stato davvero una fonte di ispirazione per varie aziende ancora esistenti. Se non ci fossero state varie vicissitudini sfortunate, sono certo che l’azienda Longo, esisterebbe ancora oggi.

Tra le varie passioni, Giorgio Longo aveva anche quella dell’editoria: tra i vari settori della Longo SpA c’era infatti anche un reparto di editoria grazie al quale, nel 1954 cominciò a pubblicare una rivista mensile dal nome Selecart, - rivista della cartolibreria e dei commerci affini. Al suo interno, anche i competitor della Longo potevano fare pubblicità dei loro prodotti, quindi era un’iniziativa molto democratica. C’erano anche interventi di giornalisti che scrivevano di attualità, cultura, delle varie problematiche politiche dell'epoca… una rivista di cultura generale, oltre che specializzata del settore cartolibrario.

 

La proprietà cambiò da familiare a non familiare? Cosa è successo?

Quando è morto mio nonno, mia nonna non volendo occuparsi dell’azienda e, avendo una figlia ancora piccola (mia madre), decise di vendere. Vennero smantellate tutte e tre le macro aziende: la principale – Longo – fu venduta a un gruppo di cartiere che fallì alcuni anni dopo, finendo in concordato preventivo. La Longo Sub fu venduta alla Mares, azienda che ancora esiste oggi. E invece la Redi (acronimo per Raccordi per l’edilizia) – di cui parlo nel libro e che si occupa di produrre raccordi in PVC – anch’essa esiste ancora oggi, ed è una leader di mercato di proprietà belga. All’epoca era di proprietà Longo. Nel libro c’è una fotografia aerea che ritrae il vecchio e il nuovo stabilimento al cui interno venivano realizzati i prodotti delle tre aziende di proprietà di Giorgio Longo.

 

A chi appartiene oggi il marchio Longo?

Il marchio esiste ancora. Da un lato sono contento perché non è decaduto; dall'altro, sono dispiaciuto perché è in disuso.

 

Secondo lei, qual è l’aspetto di questa storia che merita di essere raccontato anche ai giovani d’oggi?

Per i giovani che sono nati negli anni Duemila, tutto quello che viene rappresentato nel volume potrebbe sembrare preistoria, in realtà racconta il mondo com’era fino all’altro ieri, prima dell’avvento del digitale, avvenuto a cavallo fra gli anni ’80 e ’90. A maggior ragione mi pare interessante che possano riscoprire com’era il mondo soltanto cinquant’anni fa, quindi all’epoca dei loro genitori o nonni. Il digitale ha limitato moltissimo l’uso dei prodotti di cancelleria, si sta perdendo la manualità, in quanto oggigiorno fanno quasi tutto i computer, mentre prima era indispensabile dover utilizzare certi oggetti e certi strumenti.

Spero quindi di poter raccontare questa storia e far appassionare quanti più ragazzi possibile.

 

Nei confronti delle imprese, invece, quali sono gli aspetti di questa storia che secondo lei hanno avuto più appeal?

Dal punto di vista delle imprese, ho voluto contattare Lorenzo Sassoli de Bianchi, che ha anche scritto un bellissimo testo su mio nonno, perché ebbe modo di conoscerlo quando era molto giovane. Sassoli de Bianchi, essendo l'attuale presidente di Valsoia, è simbolo di un'industria viva e presente e funge da trait d'union tra la parte storica e quella artistica all’interno del volume. Nel volume, c’è anche il testo critico di Raffaella Salato, una bravissima critica e curatrice di Fondazione Roma. Per poi chiudere con le 14 opere di Marco Angelini. Il progetto si sviluppa quindi su due binari: artistico e storico. 

 

Dopo la mostra fatta a Bologna, sarebbe interessante trovare uno spazio a Roma…

Esatto, per ora mi sono occupato di Bologna durante quest'ultimo anno e mezzo. È stato un cerchio aperto e chiuso in modo direi quasi perfetto. La BiblHuB è tra i primi contatti del progetto su Roma e mi piacerebbe fare qualcosa qui come anche in Veneto, considerato che i Longo abitavano lì prima di trasferirsi dopo la prima guerra mondiale a Bologna. Infatti, mio nonno e il padre di mio nonno erano veneti e avevano inizialmente, come accennato poc’anzi, una tipografia, che diventò poi una stamperia e quindi una cartiera prima dell’apertura dell’industria nel 1926. Dunque, in qualche modo, c’è sempre stato un collegamento dei Longo al mondo della cancelleria.

 

Come si inserisce tutto questo nel suo percorso professionale, qual è stato l'elemento di stimolo e anche di difficoltà?

È stata la mia prima esperienza come organizzatore di una mostra e curatore di un volume: è stato tutto in divenire, a partire dalla collaborazione con Angelini. Ci siamo appassionati entrambi al progetto, alla fine, da una sono diventate quattordici opere. A quel punto, c’era la necessità di fare una mostra e il Museo del Patrimonio Industriale mi è sembrato lo spazio più adatto fin da subito; tra l’altro, alcuni oggetti della Longo rimarranno in esposizione all’interno del Museo.

Prima che si concludesse la mostra, nel febbraio 2023, ho avuto la possibilità di trovare un editore interessato a raccontare questa storia, e li è nata la collaborazione con De Luca Editori d’Arte, editori di grande esperienza. Il volume LONGO – dall’Industria alle opere di Marco Angelini racconta la storia di una famiglia, della sua industria i cui prodotti sono nei ricordi di tanti di Italiani, e di come sia stata riscoperta attraverso non solo ricostruzioni storiche, interviste, ma soprattutto attraverso l’arte, che Giorgio Longo tanto amava.

 

Per concludere, qual è il suo simbolo, la sua icona di riferimento alla quale è più affezionato in questo libro?

Alcune opere sono di mia proprietà e questa (a pp. 48-49 del volume e riprodotta di lato) è forse per me la più speciale. In realtà, all’inizio l’avevo un po’ sottovalutata perché è l'unica opera, delle quattordici, che non contiene un oggetto di produzione dell'azienda, bensì gli ex libris di Giorgio Longo. Questa, forse, è l’opera più privata di tutte e si chiama appunto Ex libris: la misura del tempo: è simbolica, proprio perché mio nonno era anche un grande appassionato di letteratura.

Le riproduzioni di quest'opera e di altri manifesti pubblicitari Longo dell’epoca, saranno donate alla Sala Rossa grazie all’interessamento del dott. Balbo. Saranno le benvenute all’interno della galleria di copie grafiche che rinviano alla cultura d’impresa, recentemente allestita per iniziativa della Biblioteca di Ricerca Sociale, Informatica e Comunicazione.

Alla Longo e al volume che la racconta abbiamo dedicato un piccolo tributo video sul canale YouTube della BiblHuB Sapienza:    https://www.youtube.com/watch?v=1WDzGYBiu_o

 

Grazie ad Ascanio Balbo di Vinadio per la testimonianza e per l’attenzione riservata alla BiblHuB Sapienza.

 

A cura di Lucia Salerno e Paola Redente

Laureande del corso di Laurea Magistrale in Organizzazione e Marketing per la Comunicazione d’Impresa - Sapienza Università di Roma.
 

salerno.1995213@studenti.uniroma1.it

redente.paola@gmail.com

 

 

 

Narrazioni e nuovi “eroi” per raccontare d’impresa

intervista ad Antonio Alunni, Presidente del Gruppo Tecnico Cultura e Sviluppo di CONFINDUSTRIA

 

 

L’idea di intervistare il dott. Antonio Alunni, Presidente del Gruppo Tecnico Cultura e Sviluppo di Confindustria, nasce a margine degli appuntamenti che a novembre 2022 hanno coinvolto la BiblHuB Sapienza, biblioteca d’impresa del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale, nell’ambito della XXI Settimana della Cultura d’Impresa.

Per aver reso possibile questo incontro, uno speciale grazie va alla prof.ssa Valentina Martino (docente di Comunicazione Organizzativa e di Corporate alla Sapienza) e al dott. Fulvio Ingrosso (responsabile dell’Archivio Storico e Biblioteca di Confindustria).

Il colloquio con il dott. Alunni si è svolto il 29 novembre 2022 e, nell’ambito della tesi magistrale di chi scrive, ha puntato ad approfondire molteplici temi legati alla valorizzazione e comunicazione della cultura d’impresa.

 

Da sempre Confindustria è molto attiva nella promozione della Cultura d’impresa. Quali obiettivi sono stati raggiunti, a oggi?  

I risultati raggiunti sono diversi. Resta naturalmente molto da fare affinché il Paese riconosca appieno le potenzialità della cultura impresa, il valore sociale dell’attività imprenditoriale.

C'è ancora molto da lavorare. Tuttavia, negli anni l'attività del Gruppo Tecnico Cultura di Confindustria ha fatto sì che impresa e cultura siano viste sempre più come elementi complementari. Questo sicuramente è un passo in avanti importante, in particolare verso il mondo esterno, ovvero la società, le comunità nelle quali le imprese operano; ma è servito moltissimo alle imprese stesse, agli imprenditori e al management, per sensibilizzare chi è al governo delle imprese ed esplicitare ciò che le imprese rappresentano nel Paese-

Penso che gli ultimi anni abbiano portato frutto, insomma.

Che impronta sta cercando di dare, con il suo mandato, all’attività della Commissione Cultura?

L'obiettivo più alto che ci siamo posti è quello di ritornare a una dimensione pubblica dell'imprenditore, quale figura positiva, forte, sinonimo di progresso, d'innovazione, di cambiamento positivo della società. Una dimensione pubblica che, dall'imprenditore, si trasferisca anche all'impresa.

Ritorniamo un po’ a quello che ho detto all'inizio. Oggi il Paese vive un momento di profondi cambiamenti. Dietro i temi  economici, per fortuna chiari e riconosciuti come determinanti, c'è il tema dell'impresa, decisivo in un Paese come il nostro che vive di un'economia di mercato molto ampia, globale.

E’ dunque importate far sì che la società veda in un'ottica rinnovata, positiva, il ruolo delle imprese, e non sono di chi è al vertice, per tutte le persone che di lavoro devono vivere e, di conseguenza, per tutta la società. Per riconoscere la bellezza del lavoro, come contributo che ognuno può dare al progresso, proprio e della società.

[…] Con tutti i colleghi che partecipano al Comitato Tecnico Cultura condividiamo l’auspicio a portare fiducia verso il futuro attraverso la nostra azione, che è importante ma da sola certamente non sufficiente. Perché l'impresa è questo: una realtà che opera guardando al medio e al lungo termine, vivendo il presente ma sempre con lo sguardo  rivolto in avanti. Esiste dove c'è fiducia, ottimismo, tenacia per credere nel cambiamento: ecco, questi sono i valori fondanti con i quali vorremmo contribuire alla vita della nostra società.

Oggi le imprese sono spesso ripiegate su se stesse e guardano al futuro con diffidenza, con sfiducia.. Ma non è così. La verità è che sta a noi far sì che il futuro sia meglio del presente. Ecco questa è la sfida, per il futuro.

I numerosi musei e archivi storici d’impresa presenti in tutta Italia testimoniano e raccontano storie di innovazione, saper fare, successo, offrendo una prova tangibile del tanto decantato Made in Italy. La Commissione Cultura porta avanti politiche di aggregazione per valorizzare, facendo sistema, la cultura d’impresa?

Assolutamente sì. Gli archivi e i musei d'impresa sono una testimonianza reale del valore del patrimonio e dell’heritage industriale. E sapere da dove si viene è precondizione per capire dove si può arrivare. Fortunatamente l'Italia, da questo punto di vista, non deve invidiare nessun altro paese avanzato.

Possiamo vantare una storia d’eccezione: di imprese, di vicende straordinarie, di uomini, donne e comunità economiche che hanno fatto grande il nostro Paese. Effettivamente, visitando questi musei d'impresa si capisce perché esista il "Made in Italy". (ride)

Il "Made in Italy" è qualcosa di magnifico. Noi siamo dei grandi esperti nella manifattura, nell’artigianato, e i musei d'impresa rendono questo messaggio tangibile. I musei d'impresa servono, tuttavia, non solo per comunicare con gli stakeholder esterni, ma per fortificare le imprese al loro interno. Per comunicare con i loro collaboratori, trovando nell'archivio e nel museo un’opportunità aggiuntiva e straordinaria di racconto. Sempre che questi centri della cultura d’impresa – musei e archivi storici – non guardino al passato, ma siano proiettati al futuro.

Archivi e musei d’impresa rappresentano oggi veri e propri contesti di comunicazione aziendale. Come vede il loro futuro, da questo punto di vista?

Un museo o un archivio storico è un asset di valorizzazione patrimoniale dell'azienda. Basti solo pensare alla capacità attrattiva di un'impresa che sappia ben raccontare la propria storia e, quindi, il proprio futuro. Attrazione, per esempi, verso i cosiddetti “talenti”, attratti da organizzazioni nelle quali vi sia una forte consapevolezza e tensione verso il futuro forte.

Parlando di territorio, quanto è rilevante il legame tra impresa e territorio ai fini della realizzazione di iniziative culturali?

L'impresa deve essere protagonista nel territorio di appartenenza e competenza. Questo è, secondo me, un punto molto importante per il ruolo sociale che l'impresa deve svolgere. Non solo come mecenate, ma contribuendo sul piano progettuale a iniziative culturali, sportive, artistiche, sociali.

Da imprese in grado di scalare i mercati mondiali, di fare innovazione, di capire esigenze complesse del nostro tempo, ci si aspetta tanto più che diano un contributo nel proprio territorio. E questo accade quotidianamente in tutta Italia. Basti pensare ai legami tra l'impresa e le scuole, le Università; o con attività culturali che le imprese non si limitino a finanziare, ma di cui sostengano la progettualità.

Senza mezzi termini, ritengo che un'impresa debba fare questo. Come  Gruppo Tecnico Cultura intendiamo far capire sempre più al mondo imprenditoriale che, per guadagnare una dimensione pubblica positiva, occorre non restare chiusi nei propri stabilimenti e uffici, ma essere attori sociali, aprendosi alle proprie comunità.

Secondo Lei, quali sono i fattori determinanti che incoraggiano le aziende a sostenere progetti e iniziative culturali? Puramente un ritorno economico o anche altro?

Naturalmente il punto di vista varia molto in base alla sensibilità di chi è al governo dell'impresa. Tuttavia, penso che un altro valore fondamentale, specie nel nostro Paese, è che le nostre imprese sono specchio della bellezza italiana. Cultura è bellezza. Cultura in ogni sua forma, dalla pittura alla scrittura, al teatro, alla musica... Se le imprese lavorano per la bellezza, la bellezza può consentire risultati straordinari: non solo un puro ritorno di immagine, ma in termini di promozione di un ruolo e di un valore sociale.

Poi c'è anche una crescita di competenze e sensibilità interne all’impresa, che non deve essere sottovalutata. Fare le cose belle e buone, aiuta.

Certo! Arricchisce anche gli stessi dipendenti, fieri di far parte di un'azienda innovativa.

Certamente. Perché non può esistere un'impresa di successo se non un'impresa all’avanguardia, capace di capire il futuro. Oltre a questo, le persone percepiscono il valore di azioni tangibili: una capacità di interpretare bene il proprio ruolo nella società, offrendo non solo lavoro, ma bellezza. Ecco, torno su questa parola perché mi pare quella che più riesca a sintetizzare il ritorno di arte e cultura sui singoli e la collettività.

A seguito della pandemia, quanto ha inciso l’innovazione tecnologica sulla vita di archivi e musei d’impresa?

Guardando sempre il bicchiere mezzo pieno, la pandemia ha spinto i centri della cultura d’impresa ad utilizzare al massimo le tecnologie oggi a disposizione.

Così come negli altri musei, la digitalizzazione e la smaterializzazione permette oggi di poter accedere all’offerta culturale da ogni parte del mondo e in modo innovativo, rilanciando non solo la fruizione e l’accesso da parte del pubblico, ma lo stesso “design” delle esperienze cultuali offerte da queste strutture.

Nel nostro Paese cosa potrebbe fare il Governo per tutelare e valorizzare la cultura d’impresa?

Anche alla luce dei risultati dell'Art Bonus, la prima cosa che riteniamo fondamentale è quella di estendere le agevolazioni esistenti per i privati e per le imprese che investano in cultura. Potrebbe essere un’opportunità fondamentale, per liberare risorse, attraverso forme intelligenti di incentivazione fiscale. Quello che chiediamo sempre più alle istituzioni pubbliche, al Governo, è di vedere, ripeto, le imprese non solo come finanziatrici, ma anche promotrici di idee e di contenuti.

Non a caso, dove c’è il privato troviamo i risultati migliori (ride)... anche nella cultura, la quale genera un suo PIL, un’economia enorme. Qui c'è un potenziale straordinario ancora da esprimere, soprattutto il nostro Paese, attraverso una più organica collaborazione tra pubblico e privato. Senza pregiudizi, ecco.

C'è qualcos'altro che vorrebbe aggiungere?

Ci sarebbero tante cose. Vorrei sottolineare che sta ai giovani di oggi conoscere le imprese, capire cosa significhi veramente cultura d'impresa e promuoverne i valori.

Come ricorderà, è quanto ho ribadito anche in occasione del mio recente intervento alla Sapienza, così positivamente colpito del numero di giovani che studiano Comunicazione d'Impresa.

A loro tutti auguro di vivere esperienze lavorative, professionali e umane magnifiche in azienda. Di scoprire il bello che c’è, nelle imprese di questo Paese.

 

Grazie al Dott. Alunni per la Sua testimonianza.

 

A cura di Manuela Montella

Laureanda in Organizzazione e Marketing per la Comunicazione d’Impresa - Sapienza Università di Roma

montella.1751895@studenti.uniroma1.it

 

 

 

 

 

 

 Un pennello molto pop

Intervista a Eleonora Calavalle, Ceo di Pennelli Cinghiale

 

 

Il 20 maggio 2022 la redazione della BiblHuB Sapienza ha avuto il piacere di intervistare, in collegamento dalla Sala Rossa, Eleonora Calavalle, CEO di Pennelli Cinghiale, storica azienda italiana, in occasione dell’inaugurazione del neonato “Museo del Tempo”, con sede in Via Co' de Bruni Levante, Cicognara. Nel nuovo spazio espositivo, passato e presente si intrecciano grazie a una raccolta di documenti d’archivio, testimonianze, riconoscimenti e rarità di archeologia industriale, affiancata da contenuti multimediali e multisensoriali che declinano in chiave contemporanea il racconto dell’impresa mantovana.

Qui di seguito riportiamo l’intervista integrale.

 

  1. Perché proprio un “Museo del Tempo”? Com’è nata e come si è evoluta l’idea di un museo aziendale?

L’idea è nata durante il periodo del primo lockdown quando, mettendo in ordine nei magazzini aziendali, abbiamo avuto modo di riscoprire oggetti e macchinari di una bellezza straordinaria, di grande contemporaneità. Ho avuto voglia di riportarli alla luce e di mostrare a tutti quanta modernità ci fosse in un’azienda come Pennelli Cinghiale.

Tutto è nato così, negli scantinati.

Quando ho pensato che tutto questo potesse trasformarsi in un’esposizione, il mio timore è stato quello di annoiare le persone che avrebbero visto questi oggetti. Ho deciso, a quel punto, di coinvolgere un artista contemporaneo.

 

  1. Per questo nuovo progetto culturale è stato prescelto DutyGorn, artista pop che ha saputo sviscerare con i colori l’iconismo dei Pennelli Cinghiale. Come e perché è nata questa collaborazione artistica?

Secondo la nostra visione era collegato all’idea del pennello, inteso non più come solo strumento ma trasformato in un’opera d’arte.

DutyGorn è famoso per gli Hunting Games, dove vi è una sorta di caccia al tesoro artistica.

Utilizzava i Pennelli della nostra azienda. È stato un colpo di fulmine tra di noi: i nostri prodotti erano già trasformati in performance.

Dal mio racconto, ha saputo quindi interpretare con il suo linguaggio da pop artist l’intera esecuzione del Museo del Tempo.

 

 

  1. Quanto ha inciso il valore familiare all’interno della vostra impresa, e nella stessa scelta di realizzare un museo?

L’azienda familiare è tanto. È un’azienda dove i problemi si amplificano, ma si gode anche delle opportunità che una famiglia offre. Nel costruire questo Museo è stato importante lavorare su tutti i tasselli che ogni membro della famiglia portava, sia a livello di visione sia di vissuto personale; e parlo soprattutto del Commendator Boldrini, mio nonno, una persona che non si dimentica. La famiglia ti dà ricchezza, il Museo si interseca con la storia della nostra famiglia.

Molto belli sono stati gli spaccati umani che trascendono la vita d’impresa. Questo il visitatore lo avverte, sente che dietro una fotografia c’è un sentimento. Abbiamo questo motore che ci spinge.

Abbiamo voluto inoltre creare un dejavù nel visitatore attraverso le linee del tempo, senza una consecutio temporum. Abbiamo lavorato sulle tappe della nostra storia in maniera incrociata, distorta. Una delle opere d’arte è Upside Down, la prima opera che si vede entrando, sul soffitto, e che a me piace definirela Cappella Sistina del Museo di Pennelli Cinghiale. L’artista l’ha pianificata a terra e, dopo una settimana, ha trovato l’equilibrio perfetto, riportandola sul soffitto. È stato davvero emozionante constatare come l’effetto sorpresa che si instaura nel visitatore sia dato da un calcolo matematico.

 

  1. Da quale punto di vista, secondo lei, il Museo del Tempo somiglia di più a Pennelli Cinghiale, esprimendo la cultura e l’identità aziendali?

Ciò che accomuna il Museo e l’Azienda è sicuramente l’italianità. Il made in Italy è presente nell’attenzione ai dettagli, nella qualità del risultato.

Pennelli Cinghiale vuole essere un brand globale, un’esperienza che lasci il segno. Per la quale nulla sia dettato dal caso, tanto nel Museo quanto all’interno dell’azienda. 

 

  1. Prima ancora di leggere il volume “A love brand”, associato al museo e gentilmente donato alla BiblHuB, ci ha colpito molto la scelta di stampare la copertina del volume in diversi colori. Perché questa decisione?

Sono gli stessi colori che si trovano all’interno del Museo. La scelta di personalizzare la copertina del volume richiama lo spirito del tailor made, dell’essere per il cliente un prodotto su misura.

 

  1. Cosa significa per un’azienda come Pennelli Cinghiale investire in arte e cultura?

Significa portare avanti il concetto che chiunque utilizzi un pennello è in qualche modo un artista, una persona che crea qualcosa di bello.

Un artista non è solo colui che espone in un Museo, ma è anche l’appassionato del Fai da Te. Può esserci arte ogni qualvolta si utilizzi un Pennello.

Questo senso di creazione estetica fa da sempre parte del nostro DNA. Il pennello non solo come strumento, ma come opportunità estetica.

 

  1. Come immagina il Museo del Tempo tra cinque anni?

Immagino una linea del tempo che continua, con nuove tappe che vanno avanti in una direzione sempre più internazionale, parlando un linguaggio green che deve arrivare ai giovani grazie a prodotti sempre più attenti alla sostenibilità.

Il mio sogno nel cassetto è quello di creare un pennello che sia possibile gettare nel bidone dell’umido.

Vogliamo continuare con l'innovazione, creando prodotti complementari al nostro core business.

 

  1. In questo futuro immaginato, vede uno spazio per la collaborazione tra Pennelli Cinghiale e Sapienza, e per gli studenti Sapienza in particolare?

Assolutamente sì. Auspico che la vostra visione possa essere per noi un punto di riflessione. Credo che i giovani abbiano un’attenzione verso il futuro e l’innovazione più ampia di chiunque altro.

Sempre di più lavoreremo con l’Università per confrontarci, per avere sostegno in nuovi progetti.

Perché solo le università possono infondere nelle aziende capacità di visione e attenzione verso il futuro.

 

Grazie a Eleonora Calavalle per questa appassionante testimonianza di imprenditrice così sensibile ai valori dell’arte e della comunicazione. E, al neonato Museo, auguri per un brillante futuro nel panorama della cultura d’impresa italiana!

 

 

A cura di Davide Raitano, Denisa Gabriela Baican e Anna Pavarese

Davideraitano4@gmail.com

denisagabrielabaican@gmail.com

annapavarese24@gmail.com

 

 

 

 

Il “Fil Rouge” che collega il Camparino a Galleria Campari

Intervista a Elisa Fulco

 

  L’11 marzo 2022, la redazione della BiblHuB Sapienza ha avuto il piacere di incontrare Elisa Fulco, eclettica progettista culturale che si è più volte cimentata con il mondo d'impresa e docente alla Scuola Holden di Torino.

Proprio nell’ambito del workshop “Racconti d’impresa”, gli studenti del secondo anno del College Story Design hanno realizzato il progetto “Fil Rouge”, in collaborazione con la Galleria Campari.
L’iniziativa ha puntato a rielaborare in chiave moderna lo storico “Cantastorie di Campari”, contenitore di poesia pubblicitaria pubblicato negli anni Venti e Trenta, con testi in versi illustrati da diversi artisti, fra i quali Bruno Munari.

Dal Cantastorie e dalla ricostruzione della storia del Manifesto Campari che ha inaugurato la Linea Rossa della metropolitana di Milano nel 1964, è nata così l’idea di un racconto podcast a puntate, da ascoltare idealmente nel tragitto di 14 fermate che collegano la Galleria Campari, a Sesto San Giovanni, al Camparino, lo storico caffè fondato nel 1915 in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano.

Per instradare il progetto, fondamentali sono stati le testimonianze di Paolo Cavallo, direttore della Galleria Campari, ed Enrico Bocedi, direttore della comunicazione corporate, così come i documenti utili a ricostruire la storia aziendale e gli elementi

 

Link alla scheda catalograficafondamentali del Cantastorie. A partire da questi spunti, gli studenti hanno potuto dar sfogo alla propria creatività e talento realizzando 14 racconti, in rima e prosa, alcuni più emotivi e personali, altri più legati alle vicende di Campari (come lo storico manifesto dello Spiritello, ideato da Leonetto Cappiello), registrati da un’interprete che ha dato loro voce.

“Lo sforzo è stato quello di fornire più stimoli possibili, di incuriosire gli allievi anche rispetto alla storia del marchio, far vedere materiali, portarli a riflettere su alcune associazioni, da questo punto di vista Campari è un marchio straordinario. Ha un potere evocativo altissimo, con la figura di Fortunato Depero, la bottiglietta monodose degli anni Trenta, i manifesti di un’innovazione incredibile per l’epoca. È un marchio che ha un passato che si presta benissimo a essere trasformato in una chiave contemporanea.
Ha un patrimonio – mi viene da dire – senza tempo. Sono opere che non invecchiano, ma che anzi sorprendono per la loro freschezza… Campari è un marchio legato alla socialità, al vivere bene; dunque, un marchio interessante con il quale confrontarsi”.

All’audio racconto è stato quindi affiancata una versione cartacea, con la trasposizione dei racconti e delle immagini nel libro “Fil Rouge”:

“La trasposizione in libro ha richiesto un lavoro maggiore, perché il testo doveva funzionare nella versione sia scritta che orale, cosa niente affatto automatica. È stato necessario uno sforzo in più, perché non tutti i testi funzionano quando sono letti ad alta voce. Mantenere nello scritto il controllo della dimensione orale ha costituito un ulteriore tassello di difficoltà.”

In merito alla realizzazione di un possibile format e ai risultati del progetto, Elisa Fulco continua:

“Oggi siamo tutti più sensibili alla dimensione orale e alla voce. Altrimenti non si spiegherebbe la rinascita di un formato che per tanti era stato dato per morto, disperso, non recuperabile. Quello degli audiolibri è un segmento che sta avendo una grandissima crescita. Ha a che fare con un momento storico molto preciso, nel quale c’è più attenzione all’oralità e stanno nascendo tantissimi progetti in questa direzione. Sicuramente potrebbe dare vita a un format.
[…] In realtà il progetto per Galleria Campari non è stato pensato come format, ma si è rivelato un’operazione di successo perché è nato - questo è il bello - come esercitazione. Il lavoro d’aula si è tradotto in prodotto. Per me questa è la soddisfazione più grande, riuscire a trasformare un workshop in un prodotto finale, confezionato e curato con la supervisione di Galleria Campari, così da offrire una vera esperienza professionale all’interno di un contesto formativo.
Una volta presentato, abbiamo avuto un grande riscontro anche dalla stampa… Il progetto è piaciuto molto anche a Campari e, quindi, al di là della Galleria Campari, probabilmente proseguiremo anche in un’altra forma con Campari Corporate, o almeno ce lo auguriamo”.

Non da ultimo, rispetto al tema di come raccontare la cultura d’impresa in maniera innovativa, l’esperta mette in luce l’importanza della multidisciplinarietà, affermando:

“Secondo me c’è molto bisogno di contaminazione. La cultura d’impresa dovrebbe legarsi ad altre discipline come l’arte, la letteratura, la poesia etc.; uscire dai propri confini, partendo dal presupposto che l’impresa è per sua natura multidisciplinare e politecnica. Senza snaturarsi, ma tirando fuori quegli aspetti che sono già all’interno di una storia aziendale e provando a rileggerli in chiave contemporanea. È lo sguardo che deve cambiare; e, dunque, la formazione delle persone chiamate a leggere i patrimoni”.

Grazie ad Elisa Fulco per la sua testimonianza d’eccezione.

Per un estratto dell’intervista, si rinvia al canale YouTube della BiblHuB Sapienza:

https://youtu.be/zNUd80TIhEQ

 

di Nataliya Bolboka
nataliyabolboka@gmail.com

 

 

 

L’insolenza e l’audacia di occuparsi di editoria aziendale

Intervista a Massimo Gatta

 

Il 28 febbraio 2022, il gruppo di ricerca della BiblHuB Sapienza ha avuto il piacere di intervistare Massimo Gatta, bibliotecario all’Università del Molise ed esperto di editoria del Novecento. Massimo Gatta è direttore editoriale della casa editrice Biblohaus e autore assai prolifico di saggi e volumi, fino al recente “L’insolenza e l’audacia. Sul disordine dei nostri libri” (Graphe.it, 2021).

Sul tema dell’editoria e dei libri d’impresa (oggetto dell’intervista), Massimo Gatta ha curato numerosi approfondimenti e mostre bibliografiche, tra le poche a oggi dedicate a questo tema. Ricordiamo, in particolare, la retrospettiva “Stili d’impresa. Editoria aziendale del Novecento”, ospitata dall’Università del Molise nel 2006.

Il colloquio, condotto a due voci da chi scrive, ha spaziato a largo spettro lungo la storia dell’editoria aziendale del Novecento, mettendo a fuoco nomi e momenti fondativi nella lunga storia che lega le imprese italiane alla cultura del libro e, più in generale, della pagina scritta: è quanto testimonia una tradizione d’eccezione nel campo degli house organ e dei magazine culturali, come pure nel filone della letteratura industriale. L’intervista non ha mancato di toccare, al tempo stesso, le molte contraddizioni e i paradossi che continuano ad affliggere la conoscenza e lo studio dell’editoria aziendale, ambito che resta a tutt’oggi tra i meno noti e studiati.

Di seguito e sul canale YouTube della BiblHuB Sapienza (https://www.youtube.com/watch?v=Cjc86qfNGfQ&t=45s), una sintesi dell’articolato e ispirante racconto di Massimo Gatta.

 

Valentina Martino: “Di fatto, si parla ormai comunemente di cultura d’impresa in riferimento a molteplici ambiti; tuttavia, i libri dell’impresa finiscono per restare invisibili o, al limite, per essere percepiti come oggetti “strani”, fuori posto. La tendenza è stata finora a derubricare fin troppo frettolosamente questa produzione editoriale come un accidente e un elemento di puro colore nella storia culturale del Novecento, a dispetto della sua pregnanza conoscitiva. Sulla scorta della tua lunga esperienza come studioso del settore, ci sono aspetti dell’editoria del Novecento che l’editoria aziendale consente di mettere in luce?”

Massimo Gatta: “Questo tipo di produzione editoriale, nata in ambito strettamente aziendale, si dirama e può essere letta in tante modalità. C’è tutta la grande tradizione delle riviste di ambito aziendale, nate a volte all’interno di contesti imprenditoriali di grandi gruppi. Così come sono tanti gli intellettuali che hanno collaborato a queste iniziative editoriali, addirittura messi a capo di redazioni di riviste. I nomi più noti sono Leonardo Sinisgalli, Attilio Bertolucci, insieme ad altri scrittori arruolati all’interno di aziende in maniera molto illuministica, come Ottiero Ottieri e tutta la tradizione olivettiana.

Ma questi sono discorsi estremamente dibattuti e fin troppo conosciuti. Molto meno conosciuto, invece, è il fatto che le aziende, anche quelle medio-piccole, abbiano contribuito a questo tipo di editoria producendo stampati, brochure, anche semplici prezziari, se non veri e propri “giubilari”.

[…] Ritengo che, più che una distrazione, vi sia una difficoltà di fondo da parte degli storici dell’editoria a considerare l’azienda, l’impresa, la vecchia fabbrica – una parola bellissima, questa, che nessuno usa più - non solo come un luogo di pena o di fatica, di sudore, di impegno lavorativo massacrante, quale essa è stata perlopiù nell’immaginario collettivo, ma anche una fucina di grandi potenzialità creative.

[…] Nell’editoria aziendale del primo Novecento, fino quindi agli anni Sessanta e Settanta, abbiamo avuto una qualità eccellente dal punto di vista sia della ricerca grafica sia della qualità dei materiali, a prescindere dalle potenzialità finanziarie delle aziende. Anche aziende medio-piccole hanno prodotto pubblicazioni molto belle, anche dal punto di vista progettuale e dell’ideazione del taglio da dare all’opera. Dagli anni Ottanta in poi, il discorso si è appiattito. Abbiamo avuto libri più “normali”, anche brutti dal punto di vista della qualità grafica, piuttosto sciatti. Credo che il primo Novecento sia stato sicuramente il momento più importante, anche per la presenza di artisti che successivamente non ci sono stati più.

[..] L’Italia ha avuto la fortuna di avere il più importante movimento di avanguardia, che non casualmente ha irradiato tutti i settori in assoluto: danza, eros, gastronomia, moda, grafica, musica, danza, teatro, letteratura. Al punto tale che troviamo tracce anche in queste pubblicazioni che nulla hanno a che fare con il Futurismo, ma che riprendono certi stilemi di quella produzione e “intuizione”. […] Il Depero futurista è probabilmente il libro italiano più conosciuto negli Stati Uniti, il più apprezzato. Qualche anno fa venne persino promossa una campagna di crowdfunding per farne una copia anastatica. Sia nell’ambito dell’editoria aziendale che dell’editoria del Novecento, può che essere considerato un simbolo. Un oggetto realizzato più di cento anni fa, ma che ha in sé la modernità.

[…] Penso anche a quello che ritengo uno dei massimi contributi a livello editoriale di settore, e cioè il libro per il cinquantenario della Olivetti. Il volume, pubblicato nel 1958, è una summa di straordinarie professionalità. Fu curato da Bigiaretti, Soavi e Fortini, quindi da uno scrittore, un critico d’arte sublime e un grande poeta. L’impaginazione è stata di un grande maestro del design come Max Huber, la sovraccoperta (non la copertina, come molti dicono) di Giovanni Pintori, altro straordinario protagonista e addetto ai lavori, coinvolto anche in altre iniziative del genere, con le foto interne di Fulvio Roiter e Ugo Mulas. […] A volerli estrapolare, i singoli contributi sono delle opere a sé: il tutto, assemblato, diventa un documento culturale importante.

[…] La bellezza di parlare di questi temi è quella di parlare, alla fin fine, di creatività, del genio italiano che emerge da tutte le parti: nel taglio dato a un tessuto, a un abito, a un paio di scarpe, a un gioiello. L’importanza di questi documenti è proprio quella di essere un mix di tutte queste cose. In un oggetto come il libro - che ha un peso, una sostanza, una sua matericità – troviamo dentro tante cose, che rivelano la straordinaria storia della nostra creatività, per la quale siamo giustamente conosciuti e apprezzati in tutto il mondo”.

 

Un sentito grazie a Massimo Gatta per aver accettato l’invito della BiblHuB Sapienza e condiviso la propria testimonianza d’eccezione.

 

di Valentina Martino e Nataliya Bolboka

 

 

 

Il futuro della cultura d’impresa: tra strumenti tradizionali e digitale

Intervista a Valentina Barbieri e Luca Borghini

 

Il 19 novembre 2021, Nataliya Bolboka collaboratrice della BiblHuB Sapienza, ha avuto modo di intervistare Valentina Barbieri e Luca Borghini, fondatori di Rinascimento Industriale. Nata inizialmente come format online, l’associazione promuove la cultura d’impresa in tutte le sue declinazioni e costruisce percorsi di valorizzazione per aziende, distretti e territorio.

L’intervista si è svolta in Sapienza a margine della IV edizione della manifestazione RO.ME Museum Exhibition. In questo contesto, gli intervistati hanno coordinato il panel “I marchi storici d’impresa come patrimonio culturale”, che ha visto interventi di Roberto Busso (AD Gabetti Property Solutions), Francesco Vena (AD Amaro Lucano), Matteo Mocchi (Robilant Associati), Luca Petermaier (Itas Assicurazioni), Giuliana Vinci (Direttrice Museo di Merceologia Sapienza).

 

Abbiamo già appreso dal panel che Rinascimento Industriale si occupa della valorizzazione del patrimonio e della cultura d'impresa. Vi chiederei qualche parola in più sull’iniziativa.

Valentina Barbieri: Dunque, Rinascimento nasce a marzo scorso dall’idea di Valentina Barbieri e Luca Borghini. Sostanzialmente all'inizio è nato come un gioco, come puro format online. Siamo partiti con delle dirette, ogni venerdì sera, su YouTube e LinkedIn. Gli stessi appuntamenti sono stati trasformati in puntate di un podcast. Abbiamo organizzato le puntate invitando gli imprenditori a parlare delle proprie marche (una cosa molto simile a quella che abbiamo fatto oggi).

La scelta ha riscosso grande successo perché eravamo in pieno lockdown, gli imprenditori erano a casa, parlavano volentieri del patrimonio aziendale, e noi abbiamo solleticato il loro interesse. Da lì è nata l'Associazione: oggi noi siamo infatti un’APS, associazione di promozione sociale.

Rinascimento Industriale ha in statuto, come core business, la valorizzazione del patrimonio industriale italiano. Lo facciamo ogni giorno, soprattutto andando a scandagliare le realtà più lontane dai principali centri economici e del potere.

Anche per l’occasione di oggi, non a caso, abbiamo scelto due marchi di regioni tra loro molto lontane, e molto distanti dall'immaginario milanese o torinese o romano. Siamo andati in Trentino e in Basilicata. Questa è una scelta mirata poiché, come associazione, crediamo che l'Italia tutta abbia bisogno di un Rinascimento Industriale e che questo debba ripartire anche dai centri ai margini dei capoluoghi di provincia, o comunque ai margini dei marchi più importanti. Proprio perché noi pensiamo che l'Italia sia disseminata di valori industriali che andrebbero fatti emergere, raccontati e valorizzati.

Il nostro impegno quotidiano è quello di intercettare imprenditori, umanisti o tecnici della cultura di vario tipo, dagli archivisti ai comunicatori, tutti uniti dal grande intento di raccontare la storia industriale del nostro paese.

 

Per quanto riguarda l'evoluzione della cultura d'impresa in futuro, secondo voi quale sarà?

Luca Borghini: Questa è una bella domanda… Una bella sfida immaginare l’evoluzione di settore. Di sicuro c'è una crescente consapevolezza nella classe imprenditoriale dell'importanza di parlare di cultura d'impresa e dei temi legati alla cultura d'impresa. C'è ancora molto da fare, in realtà: ci sono imprese che hanno sperimentato da capofila questo tipo di approccio, ma tante altre hanno tante ragioni per non farlo.

A nostro avviso il motivo principale è la mancanza di consapevolezza. Troppo spesso le imprese non si rendono conto del proprio potenziale di racconto, temono che esso non sia di interesse collettivo. Riteniamo, invece, che tutte le imprese abbiano delle storie che, se raccontate in maniera adeguata, possono essere di interesse.

Ugualmente c'è un problema. Spesso le aziende credono in strumenti che ormai sono fondamentalmente passati. La strenna del libro aziendale per l'anniversario, per il cinquantesimo o venticinquesimo, è un regalo che puoi fare a Natale agli stakeholder, ma non è lo strumento migliore per comunicare all'esterno.

Ci sono altri strumenti che si possono utilizzare e che devono essere utilizzati. Anche perché il tema valoriale che abbiamo accennato durante il panel è sempre più importante. L'impresa non può fare solo un racconto di sé stessa, deve raccontare i valori che trasmette, in maniera autentica, nel bene e nel male e deve comunicare con le nuove generazioni. E con “nuove generazioni” intendiamo quelle dai 40 in giù. Sono generazioni oramai abituate a confrontarsi con tematiche internazionali, con strumenti editi in maniera evoluta e non solo passiva. Questa è la sfida della cultura d'impresa nel futuro.

 

A questo punto, visto che ha parlato di strumenti, mi viene spontaneo chiedere quali siano questi strumenti.
Se non altro qualche esempio.

Valentina Barbieri: Sì, io prima volevo aggiungere una cosa a quello che diceva Luca. Ancora oggi non è scontato parlare di cultura d'impresa, dipende molto dall’interlocutore. Per esempio, oggi erano presenti nel nostro panel rappresentanti di marchi che hanno già intrapreso un percorso di valorizzazione, che sono arrivati a credere nei loro valori, hanno realizzato siti, musei eccetera. Tuttavia, resta niente affatto scontato, ancora oggi, parlare agli imprenditori di cultura d'impresa. Ribadisco: andando in un piccolo centro italiano e parlando agli imprenditori di cultura d’impresa, questi potrebbero risponderci: “Cultura in che senso?”.

Tornando alle azioni, quelle possibili sono svariate: il nostro desiderio è quello di affiancarci agli imprenditori in questo percorso di valorizzazione.

Ci possono essere imprenditori già formati, che hanno bisogno solo di una partnership o di un sostegno per eventi, per conferenze. Ci sono imprenditori che invece vanno presi per mano dall'inizio: in questi casi, occorre dialogare con l'imprenditore, capire anzitutto quale sia il patrimonio aziendale di quella realtà.

Per esempio, non tutte le realtà banalmente hanno un archivio o, se ce l'hanno, esso potrebbe essere non ordinato, disperso, diffuso. Spesso, dunque, la storia aziendale non è ricostruita. In questi casi, ci sono tante attività da intraprendere. Sicuramente, la prima cosa da fare sarebbe raccogliere tutto il patrimonio e cercare di capire a che punto si è giunti nella sua valorizzazione.

Poi c'è la sfera della comunicazione di questo patrimonio, perché l'Italia è un paese caratterizzato da un grande patrimonio inespresso. Noi abbiamo chilometri lineari di archivi in Italia e nessuno lo sa, perché fintanto che il valore rimane dentro all'archivio, dentro la carta, dentro gli oggetti, e non è comunicato all'esterno in varie forme, esso resta silente. Quindi, di per sé non significa nulla per la gente comune.

Luca Borghini: Per tornare alla domanda, sono tanti gli strumenti disponibili. Di sicuro ci vuole un giusto compromesso tra strumenti più innovativi, contemporanei, e quelli invece più tradizionali.

Mi spiego meglio. L'approccio classico della ricerca, dello strumento legato alla ricerca – quindi l'archivio o l'inventario – restano sempre strumenti validi e fondamentali per conoscere la storia di un'azienda.

Per il racconto e la comunicazione che devono portare il patrimonio aziendale all'esterno, ben venga invece l'utilizzo di strumenti più contemporanei possibili: per esempio una mostra, un contenuto emozionale proiettato verso un grande pubblico. O anche strumenti come la realtà aumentata e tutto quello che è il mondo digital: strumenti che permettono di realizzare esperienze altrimenti impossibili.

Possiamo fare tanti esempi. Se pensiamo a un’azienda metalmeccanica, difficilmente potrebbe far fare ai propri pubblici un’esperienza in fabbrica. In quel caso, il digitale può essere decisivo. Se si rappresenta un prodotto enogastronomico è importante farlo assaggiare, se invece si producono bulloni, occorre inventare qualcosa di diverso.

Pensiamo anche al gaming, che è uno strumento potente nella misura in cui consente di accorciare le distanze con le generazioni più giovani. La sfida, per la cultura d’impresa, è del resto comunicare a più livelli. Parlare agli imprenditori come oggi, ma anche al giovane che può sentirsi stimolato a conoscere la storia di un'impresa attraverso un gioco.

Per esempio, si pensi al settore automotive, che da sempre utilizza il simulatore, presente alla fine del percorso. Ma è possibile ricorrere a simulazioni, esperienze e giochi anche con aziende di servizi.
È un settore da esplorare, i musei tradizionali (ovvero quelli non aziendali) lo fanno; talvolta lo fanno male, a mio avviso, promuovendo iniziative un po’ pacchiane, che si vede sono ideate da persone che non giocano.

I musei d'impresa possono arrivare a produrre dei contenuti di alto livello. Volendo fare un esempio a mio avviso molto funzionale, si pensi a Balenciaga, che ha lanciato l'ultima collezione facendo sfilare Homer Simpson.
Cosa potrebbe esserci di più popolare che utilizzare Homer Simpson per una sfilata? Peraltro, con un immaginario particolare, legato a una figura che non è certamente quella longilinea e classica da sfilata…

Grazie mille per il vostro tempo e per i temi toccati dalla testimonianza, molto interessanti così come del resto lo è stato il panel odierno.

 

di Nataliya Bolboka

Laureanda del corso di Organizzazione e Marketing per la Comunicazione d’Impresa Sapienza Università di Roma e collaboratrice BiblHuB Sapienza.

nataliyabolboka@gmail.com

 

 

 

 

 

Cultura, impresa, territorio

Intervista ad Alessandro Carlorosi, Direttore dell’associazione Paesaggio dell’Eccellenza

Nel corso degli studi in Sapienza, grazie al supporto della Prof.ssa Valentina Martino, chi scrive ha avuto più di una volta il piacere di raccogliere la testimonianza del Dott. Alessandro Carlorosi, Corporate Heritage Advisor e, dal 2012, Direttore di Paesaggio dell’Eccellenza, associazione dedita alla valorizzazione del patrimonio industriale delle Marche e partner della rete nazionale di Museimpresa.

La storia che lega Carlorosi alla realtà che attualmente dirige risale a ben prima della nascita dell’associazione nel 2005, avendo partecipato alla declinazione dell’ipotesi progettuale fin dai suoi albori. Ha poi avuto la possibilità di affiancare per dieci anni il Dott. Marco Montemaggi, tra i maggiori esperti nel panorama nazionale della valorizzazione del patrimonio industriale (già intervistato dalla redazione della BiblHuB), quando questi ricopriva la carica di Direttore. Oggi si dice orgoglioso del ruolo che è chiamato a svolgere e delle attività portate avanti con l’associazione nel corso degli anni.

Il 4 giugno 2021 ci siamo incontrati di nuovo per parlare della nostra regione, le Marche, e di quanto la cultura industriale sia fondamentale per il successo delle imprese e dei territori.

Il valore della cultura industriale

Paesaggio dell’Eccellenza è un’associazione composta da un ecosistema di imprese, università, business school, istituti superiori, ITS e municipalità, nata su iniziativa del Gruppo Guzzini insieme a Comune di Recanati, Studio Conti e Università di Camerino. Il suo scopo è quello di conservare, valorizzare e promuovere la cultura produttiva e industriale delle Marche, ritenuta uno dei potenziali motori per lo sviluppo della competitività delle imprese e del territorio nella sua interezza. Per Carlorosi, infatti, “la cultura industriale porta con sé una crescita sociale, che si allaccia alla vita economica”.

Nel corso degli anni, l’ecosistema di Paesaggio dell’Eccellenza è arrivato ad includere 43 realtà che hanno dato fiducia al suo progetto, che insieme esprimono la multisettorialità tipica di un territorio riconosciuto a livello internazionale per la capacità di “saper fare”. L’associazione è impegnata nella valorizzazione del patrimonio industriale marchigiano, mettendo a sistema il suo valore aggiunto attraverso attività divulgative, formative e di ricerca e per mezzo di scambi culturali e professionali.

Sinergia a favore del territorio

“L’impresa costituisce un attore fondamentale per il benessere del territorio”, sottolinea Carlorosi, ma la prima non può farsi carico del secondo in solitaria. In questo senso, è necessario che si stabilisca una sinergia tra molteplici attori locali.

La forza dell’associazione, infatti, sta nell’essere capace di coinvolgere non solo il mondo delle imprese, ma anche quello della formazione e delle istituzioni locali. Le scuole, così come gli altri istituti formativi, sono particolarmente funzionali alla continuità di un modello economico sui generis come quello marchigiano, che riesce a combinare innovazione e imprenditorialità con un’alta qualità della vita e dell’ambiente naturale.

Per sottolineare questa sua specificità, Paesaggio dell’Eccellenza si è fatta promotrice di un’iniziativa che punta a “coniugare, rappresentare e valorizzare le eccellenze marchigiane, sia territoriali che imprenditoriali”, per mezzo del turismo industriale. Visit Industry Marche – questo il nome del progetto – propone al proposito sette itinerari che “interpretano le espressioni e le produzioni più evocative del territorio”. Ciò, secondo il Direttore, dà la possibilità alle imprese di stabilire rapporti più diretti e trasparenti con i propri pubblici e divenire veri e propri punti d’interesse per i visitatori, favorendo lo sviluppo dell’attrattività turistica della regione.

Strategie per il futuro

Per l’Associazione, il territorio rappresenta un importante fattore strategico e una fonte di vantaggio competitivo per le imprese, in particolare se lo si lega ad aspetti concreti, “come gli investimenti fatti, le competenze sviluppate sul territorio o grazie al territorio e quello che è stato creato su di esso”, e se lo si usa come promotore di relazioni e prospettive che esulano dallo stesso e che abbracciano una più ampia apertura internazionale. Ciò è dimostrato dal fatto che sempre più comunicazioni aziendali, fa notare il Carlorosi, “uniscono i loro prodotti ai luoghi dove vengono prodotti”.

Guardando al futuro, Carlorosi afferma che l’associazione vuole stimolare un’ulteriore presa di consapevolezza da parte degli attori di Paesaggio dell’Eccellenza, lavorando per fornire loro numeri, dati e strumenti utili alla misurazione del valore intangibile generato, per le imprese e la collettività, grazie alle attività di promozione culturale dell’associazione.

“Le imprese sono "portatrici sane" di territorio perché espressione dello stesso” (A. Carlorosi)

Grazie al Dott. Carlorosi per la sua testimonianza.

di Alessio Ciccarelli

Laureato del corso in Organizzazione e Marketing per la Comunicazione d’impresa

ciccarelli.1775543@studenti.uniroma1.it

 

 

Intervista ad Alessandro Carlorosi, Direttore dell’associazione Paesaggio dell’Eccellenza (4 giugno 2021, via Skype)

 

D: Inizierei sviscerando ciò che è l’associazione “Paesaggio dell’Eccellenza”. Partirei dalle parole che compongono il nome dell’associazione, quindi “paesaggio” ed “eccellenza”. “Paesaggio” è, per voi, l’elemento coesivo del panorama produttivo molto variegato che caratterizza la nostra regione. Secondo te quali sono i punti di forza del paesaggio imprenditoriale marchigiano e quali i punti di debolezza?

R: Io innanzitutto distinguerei il piano economico e il piano culturale. Credo non sia una distinzione banale ma è estremamente importante. Sul piano economico, c’è sicuramente un passato che ha definito un modello ben preciso, che ha dato vita ad un distretto industriale sui generis, ha di fatto portato a dei risultati ben precisi e ha creato sviluppo economico e non solo. Con questo mi allaccio al discorso culturale e, in qualche modo, sociale. Sappiamo che la cultura porta con sé una crescita anche sociale, che si allaccia alla vita economica. Per quanto riguarda la parte culturale - in circa 150 anni - sono nate delle imprese che da un punto di vista culturale e creativo hanno sicuramente detto la loro. Si è creato via via un ecosistema dove si sono sviluppate migliaia di innovazioni in modo talvolta rocambolesco, sempre geniale, magari anche frutti di un genius loci, di una radice ancor più profonda. Di fatto i numeri dicono che nella Regione Marche, storicamente, vi era una percentuale di brevetti estremamente alta, una delle più alte in Italia. Una concentrazione particolare era su Fabriano, dove il numero di brevetti depositati era altissimo, con aziende che avevano punte di innovazione più avanzate in assoluto. Punti di debolezza ne abbiamo, nel senso che purtroppo il modello è cambiato perché il mondo cambia, rimanendo però radicato su quell’idea di sviluppo che ha funzionato in passato. Di buono abbiamo che ci sono delle radici profonde sul territorio e un tessuto estremamente ampio e diversificato di imprese, che daranno, guardando al futuro, la possibilità di sviluppare nuove iniziative.

D: Parliamo invece dell’altra parola che costituisce il vostro nome, “eccellenza”: per voi è un saper fare che crea valore per il territorio e per la comunità. Secondo te in che modo un’impresa può fare il bene del territorio?

R: Secondo me lo possiamo vedere nei fatti, perché nei territori dove non ci sono imprese, dove non c’è lavoro di fatto, c’è poco benessere o almeno poco sviluppo, a meno che non ci sia una prevalenza di altre attività di carattere naturale, culturale e così via. A mio avviso, l’impresa costituisce un attore fondamentale per il benessere del territorio.

D: In una conferenza passata ti ho sentito parlare di fiducia e sinergia. L’ultima parte della tale conferenza era centrata sul fatto che le imprese non possono fare bene per il territorio da sole; quindi, secondo te c’è una necessità di creare una forma di rete tra tutte le imprese per creare benessere?

R: Sì. Paesaggio dell’eccellenza è un esempio, come tanti altri, che ha messo al centro nei suoi obiettivi la cultura produttiva, ma, secondo me, la forza vera di questo progetto, che nasce con una certa intuizione nel 2003, è stata quella di coinvolgere in questa centralità della cultura produttiva tutti gli attori territoriali: le imprese, che dovevano assumere e devono assumere una consapevolezza verso la cultura produttiva; le istituzioni, quindi gli enti e le amministrazioni comunali, provinciali e regionali; poi tutto il mondo della formazione, quindi parliamo di istituti superiori, università e scuole di formazione, ma anche scuole primarie, secondarie e perché no quelle d’infanzia. Se tutti sono consapevoli di questa centralità si può lavorare in modo sinergico per portare energie ed ossigeno a questo tipo di modello economico con radici profonde. Per quanto riguarda la fiducia, credo che in questo momento storico sia fondamentale ristabilire e riassegnare questo elemento ad ogni soggetto e attore territoriale, ma occorre partire proprio da ciascuno di noi. Aziende, istituzioni, mondo della scuola e della formazione, istituti di credito e rappresentanze in molti casi devono riconquistare la fiducia. Fare sinergia verso obiettivi comuni credo che possa facilitare il processo di riconquista della fiducia.

D: Abbiamo parlato di reti. Le reti di conoscenza oggi, grazie alle tecnologie moderne di comunicazione, stanno diventando fondamentali nell’aiutare lo sviluppo del territorio. La vostra associazione stimola il trasferimento di conoscenze tra i soci? In che modo?

R: Sì, è uno dei principali asset su cui ci muoviamo. La nostra principale attività è quella, anche se può sembrare banale, di metterli in comunicazione. Banale ma non scontata, perché di fatto molto spesso ciò non avviene, perché non ci sono le strutture che lo fanno o non c’è il tempo. Di certo c’è la voglia, da parte degli imprenditori che collaborano con noi, di instaurare una comunicazione, di un trasferimento. Le conoscenze devono essere trasferite tra imprese ma anche verso il territorio e soprattutto verso le scuole.

D: Quindi la scuola, come gli altri istituti formativi, sono essenziali per te per determinare anche un trasferimento di conoscenze da territori ad altri territori?

R: Sì, sono importanti perché sono il serbatoio per proseguire un modello che è radicato ed è il motore del territorio. Se, paradossalmente, il bambino non sa che vicino casa sua si realizzano giocattoli, piuttosto che componenti per macchine molto speciali e così via, non potrà mai capire cos’ha intorno, qual è il suo contesto e la sua possibilità. La conoscenza è fondamentale per capire cosa esiste e quali sono le possibilità offerte dal contesto territoriale. Una volta noto il panorama delle possibilità, si devono offrire percorsi di specializzazione, alta formazione e opportunità di applicare la teoria direttamente nelle imprese.

D: Abbiamo parlato di cultura industriale che si diffonde all’interno del territorio: secondo te in che modo la cultura industriale può essere un valore aggiunto per il territorio?

R: Per alcuni territori non è un valore aggiunto, c’è da dirlo. Per la nostra regione sicuramente sì, perché, come dicevo prima, ha costituito un cambiamento epocale dalla mezzadria all’industrializzazione. È un valore aggiunto a tutti gli effetti perché ha contribuito a far crescere il territorio da un punto di vista economico, culturale, sociale e quant’altro. Ci sono, poi, tutta una serie di strumenti che possono mettere a sistema il valore aggiunto della cultura industriale, come tutte le iniziative culturali che si possono realizzare attorno ad essa. Tra queste vi è anche la valorizzazione attraverso il turismo d’impresa, come stiamo facendo noi. Il turismo d’impresa è uno strumento a vantaggio delle imprese e del territorio.

D: Mi hai detto “la cultura industriale non è per tutti un valore aggiunto”: quindi secondo te, lo sviluppo industriale, la salvaguardia dell’ambiente, la qualità della vita, sono concetti che possono coesistere? Qual è la tua esperienza in merito su questo fronte?

R: Oggi il tema della sostenibilità è un tema centrale ad ogni latitudine e in ogni settore. Uno dei primi parametri che il consumatore o il cittadino richiede, nella relazione con qualsiasi cosa entra in contatto, è la sostenibilità. Oggi lo vediamo anche nella pubblicità. Amazon, per esempio, nelle sue comunicazioni non si riferisce al fatto che vende milioni di prodotti, portandoli nelle case nel modo più semplice possibile e senza che il consumatore muova un dito, ma parla di quante pale eoliche ha installato a sue spese. Spende quindi milioni di euro non per comunicare il suo core business ma per dire ciò che fa per l’ambiente. Questo era un esempio per dire che il racconto sulla sostenibilità è un tema estremamente centrale oggi. Il Paesaggio dell’Eccellenza nel 2003, nel primo documento elaborato dal comitato promotore, viene messo al centro del ragionamento l’importanza dello sviluppo industriale, quindi la crescita dei fatturati, dei capannoni, dell’utilizzo delle materie prime, dei trasporti e tutto quello che richiede l’industria, ma allo stesso tempo si poneva l’attenzione alla sostenibilità. Lo sviluppo industriale deve essere calibrato in base al territorio: non ci troviamo nella Silicon Valley, ma ci troviamo in una terra bellissima dove, se lanciamo uno sguardo fuori dalla finestra possiamo vedere dei boschi, dei campi coltivati e tante altre belle cose.

D: Quindi l’associazione promuovere una sorta di “sviluppo dolce”, che gravita attorno ad una certa misura nei comportamenti delle aziende partecipanti, che non rincorrono in maniera troppo agitata il profitto ma lo legano ad un discorso e ad attività sul territorio, giusto?

R: Sì, promuoviamo uno sviluppo calibrato, diciamo così. Uno sviluppo economico, umano e ambientale. Nel nostro territorio c’è una qualità della vita molto alta e, passando all’ambito lavorativo, ti aspetti che il livello sia lo stesso. Il punto di forza del nostro territorio, ritornando alle prime domande che mi facevi, è che qui ancora si può respirare, perché quella qualità la troviamo anche all’interno dell’ambiente del lavoro.

D: In che modo la vostra associazione riesce a valorizzare la competitività delle imprese che partecipano alla vostra rete? Inoltre, in che modo valorizzano la competitività del territorio che rappresentate?

R: Competitività delle imprese e competitività del territorio vanno a braccetto. L’impresa beneficia di un territorio di qualità come il territorio beneficia dell’impresa di qualità. Questa è l’equazione. Ti faccio un esempio parlando di sostenibilità. Le persone cercano qualità senza sfruttamento delle risorse, quindi laddove c’è un territorio che già promette bene da questo punto di vista e dove operano imprese che lavorano in questo senso, la competitività viene in qualche modo da sé. Noi la valorizziamo mettendo in evidenza questi aspetti. Nonostante alcune imprese, grazie alle loro strutture, lo facciano da sole, noi stimoliamo la competitività attraverso una rete di comunicazione che valorizzi i punti di forza e che crei delle economie di scala, soprattutto per le imprese medio – piccole.

D: Prima hai parlato della valorizzazione del turismo d’impresa. Voi avete una proposta, chiamata Visit Industry Marche, all’interno della quale riuscite a coniugare impresa, turismo e territorio. Com’è nata questa idea e come sono poi declinati quei sette itinerari che la vanno a caratterizzare?

R: Visit Industry Marche mette insieme competitività del territorio e delle imprese. È uno strumento che utilizza il marketing territoriale e il turismo, creando due principali novità. Per prima cosa, ciò permette alle nostre imprese di aprirsi al pubblico, generico o specifico che sia, diventando trasparenti e dimostrando ciò che sono realmente. In secondo luogo, mette insieme la visita delle imprese con la visita dei punti di interesse del territorio perché, questi due elementi, sono i punti di forza di quest’area. Luce, Suono, Carta, Futuro, Lifestyle, Sapore e Gioco e Futuro sono le 7 parole chiave di Visit Industry Marche che interpretano le espressioni territoriali e le produzioni più evocative del territorio. All’interno di questi sette itinerari si sviluppano una serie di percorsi che permettono di fare esperienza sia nel territorio sia all’interno delle imprese. Questa proposta nasce dall’esigenza di trovare una formula di coniugazione, rappresentazione e valorizzazione delle nostre eccellenze, sia territoriali che imprenditoriali. L’azienda “The Data Appeal Company”, con cui collaboriamo, ha analizzato il sentiment sul web degli utenti confrontando venti imprese della nostra rete e venti punti di interesse sul territorio, i più visitati e caratterizzanti delle Marche. La sorpresa è stata che il sentiment positivo verso le imprese è superiore a quello per i punti di interesse. Questa è la vera notizia e la conferma che le imprese sono strategiche per il territorio anche sull’attrattività e sulla reputazione.

D: All’inizio mi hai parlato di un passato che ha dato un modello, portando alla creazione di un distretto regionale sui generis che è rimasto ancorato a quel passato, con un’impronta molto tradizionale. Secondo te, quindi, la tradizione territoriale e l’innovazione industriale sono dei concetti che si escludono a vicenda? Secondo te, inoltre, l’innovazione industriale può essere un volano per il territorio?

R: Il risico è che il tradizionalismo può appiattire l’innovazione. Il ruolo dell’Associazione è quello di sensibilizzare e stimolare affinché ciò non avvenga. Prima cosa è sostituire il termine tradizionalismo con quello di patrimonio industriale, inteso come patrimonio di esperienze. L’industrial heritage può essere utilizzato per creare un museo aziendale o lo strumento per fare innovazione o per dimostrare agli stakeholder come l’impresa è ed opera da sempre. Il patrimonio industriale potrebbe essere uno strumento per valorizzare dei modelli di sostenibilità che molte imprese si portano dietro da anni o da sempre. Dunque, non affermare in modo ossessionato e freddo che: “siamo sostenibili da ieri perché abbiamo capito che la sostenibilità è il tema dei temi”. Per fare alcuni esempi: l’utilizzo attento delle materie prime che in passato avveniva cercando di evitare sprechi, o l’utilizzo di materiali provenienti direttamente dal territorio. Queste sono pratiche di sostenibilità oggi certificate e standardizzate, ma che in realtà la necessità portava ad applicare già nel passato.

D: Tu parlavi di mentalità, quanto incide secondo te la mentalità dell’imprenditore nel territorialismo della sua impresa? Secondo te quali sono gli esempi più eclatanti (sia passati che presenti) delle Marche che si sono distinti per la loro attenzione verso il territorio?

R: Ogni impresa è guidata dall’imprenditore, che fa le sue scelte, i suoi investimenti e si prende i suoi rischi. Le imprese sono "portatrici sane" di territorio perché espressione dello stesso. Oggi questo elemento è tornato un fattore di vantaggio competitivo. Ci sono tanti esempi di imprese attente in vari modi al proprio territorio. L’associazione Paesaggio dell’Eccellenza è uno dei tanti esempi attenzione al territorio. Dal 2003, le imprese di questo ecosistema, hanno investito energie, tempo e soldi per realizzare azioni a favore del territorio.

D: Guardando al futuro, sempre da un tuo punto di vista personale, pensi che il territorialismo d’impresa sarà un valore sempre più presente nella nostra regione, nel nostro paese e, in qualche misura, anche a livello internazionale?

R: La componente territorio è strategica, ma occorre saperla dosare. È un elemento importante ma pericoloso allo stesso tempo. Non puoi chiuderti troppo nei confronti delle relazioni e delle prospettive. Allo stesso tempo, rivendicare il territorio di origine legandolo ad aspetti concreti, come gli investimenti fatti, le competenze sviluppate sul territorio o grazie al territorio e quello che è stato creato su di esso, è sicuramente un fattore interessante. Chi viene qui nelle Marche riconosce il valore estremamente alto di questo territorio, come qualità della vita, bellezze paesaggistiche, storia, dimensione ed autenticità. Tutti aspetti che sono estremamente importanti e, se combinati insieme con un racconto d’impresa, possono rendere la dimensione territoriale un punto di forza.

D: Quindi secondo te, il territorialismo d’impresa unito a quel genius loci, quell’ecosistema di cui parlavi in precedenza, deve essere un volano prima di tutto per l’apertura internazionale. È così?

R: Combinare lo sviluppo tecnologico ed economico con il racconto di valori provenienti dal territorio diventa interessante per l’apertura internazionale. Oggi molte comunicazioni aziendali uniscono prodotti ai luoghi di produzione. Recenti pubblicità televisive uniscono un pastificio allo spirito e alle bellezze della città di Napoli, stessa cosa per un marchio di caffè e la città di Genova. Anche alcune pubblicità di aziende marchigiane cominciano i loro spot con la frase “Qui nelle Marche”. Dietro queste comunicazioni ci sono analisi e investimenti importanti che dimostrano quanto sia strategica l’impronta territoriale.

D: Ultima domanda. Secondo la tua esperienza, come può cambiare il paesaggio produttivo marchigiano nei prossimi anni? Quali saranno le caratteristiche su cui secondo te le imprese marchigiane dovranno puntare più di altre nel prossimo futuro e qual è la visione del futuro di paesaggio dell’eccellenza?

R: Non so come possa cambiare il paesaggio produttivo marchigiano nei prossimi anni, sicuramente dovrà evolvere. In una realtà produttiva estremamente diversificata non possiamo prendere brillanti esempi dalla moda o da altri settori per poi trasferirli su tutti gli altri. Nel difficile 2020 e ancora più duro 2021 tante realtà produttive sono state chiuse, altre registrano performance negative, ma spiccano anche aziende che sono riuscite a crescere, e non di poco. Parlando della visione di futuro di Paesaggio dell’Eccellenza sicuramente sarà importante stimolare un ulteriore salto di consapevolezza negli attori attivi di questa realtà, cioè renderli consapevoli di lavorare per qualcosa di utile portando loro numeri, dati e strumenti di valutazione. Parlando di utilità, un’altra linea futura si muove accanto al fatto che ogni azione va misurata, soprattutto in questo campo che mette insieme cultura ed impresa. Paesaggio Eccellenza ha avviato un lavoro specifico sulla misurazione del valore intangibile delle azioni attuate.

D: Quindi per te, tutti quei fattori intangibili che vanno a crearsi attraverso l’attività d’impresa potranno, pur rimanendo il profitto sempre un dovere dell’impresa, essere utilizzati come criterio di giudizio superiore a quello del profitto nel valutare nel complesso un’azienda?

R: Sì, lo dimostrano i dati e le attività che vengono fatte dalle imprese e da chi studia le imprese. Oggi, oltre al bilancio economico c’è anche il bilancio sociale che tiene conto di una serie di parametri che spesso vanno ad indagare quella parte intangibile che è sempre stata poco considerata.

 

Per un estratto della videointervista, si rinvia al canale YouTube della Biblioteca CoRiS:

https://www.youtube.com/watch?v=SCxNnvLDJJc

 

 

 

 

Storia e storie per raccontare l’impresa

Intervista a Noell Maggini di Noell Maggini Maison (Prato)

 

” Il mio obbiettivo è stupire, ma la mia moda sarà sempre “vestibile” e al passo con le tendenze” (Noell Maggini)

 

Noell Maggini. Classe ’94, è considerato un prodigio dell’Alta Moda. Fonte di ispirazione per giovani stilisti e aspiranti modelli, insegnante di portamento e ospite d’onore per diversi eventi di moda. Lo stilista toscano è apprezzato per le sue creazioni Haute Couture ispirate al mood degli anni ’70. Diplomato a pieni voti nella scuola di taglio e cucito Oltremari Loretta, inizia la sua scalata nel mondo della moda occupandosi del backstage di importanti stilisti tra Milano e Firenze. Il 2015 è l’anno della svolta: Noell presenzia con le sue creazioni sulle migliori passerelle di Firenze e Milano, collaborando a stretto contatto con artisti, blogger ed influencer italiani e internazionali.

Iniziano i primi inviti in TV, il più celebre quello con Bebe Vio su Rai1 durante il format “La vita è una figata”. Gli abiti di Noè parlano da soli sui migliori red carpet: dal Festival del cinema di Venezia, passando per il Festival di Sanremo, fino alla Festa del Cinema di Roma.

 

 

 

Le origini gitane protagoniste di stile

Il giovane talento non ha mai nascosto le sue origini sinte, tanto che nel 2019 diventa attivista del movimento “Kethane - Rom e Sinti per l’Italia.”

La vicinanza di tale associazione ispira Noè a tal punto da creare #NMGipsy, una collezione ispirata al suo popolo in collaborazione con l’associazione e presentata durante l’edizione estiva di Pitti Uomo a giugno 2019.

Pochi mesi dopo, RealTime invita lui e il suo team come protagonisti di puntata nel format “Love Me Stranger”. In questa occasione Noè ha modo di presentare in tutta Italia il suo team multiculturale, nonché far notare l’alta presenza femminile fra i propri collaboratori.

 

Un’azienda ricca di valori

Valorizzazione della diversità e della creatività giovanile, Made in Italy, sostenibilità. A Noell piace coinvolgere un po’ tutti, dai dipendenti ai fornitori. Adora confrontarsi con loro, anche in segno di rispetto. Vorrebbe portare avanti il proprio progetto a livello mondiale, rispettando i valori dell’integrazione, della quota rosa e giovanili, soprattutto sottolineando la bellezza del “fatto in Italia”.

 

La concorrenza con i grandi marchi

La concorrenza è tanta, ma la Maison crea abiti per grandi eventi, serate di gala, eventi mondani. Chi cerca Noell è perché vuole essere unico e, per questo, le consulenze sono andate avanti su Skype durante la pandemia. Va bene comprare sul sito, ma non deve mancare l’aspetto umano. In più Maggini è uno stylist, un insegnante di portamento. Non si indossa solo un suo abito, ma un personaggio, con la sensazione di sentirsi unici in mezzo alla gente.

 

L’importanza della comunicazione di corporate in un’azienda

Lo stilista ha più volte affermato come sia necessario non sottovalutare una corretta comunicazione interna, nonché i rapporti con la stampa. Il marketing e la strategia devono vertere su una forte comunicazione dell’impresa. Press Manager e addetto alla comunicazione gestionale sono figure vitali per l’azienda, secondo il titolare.

 

Un sogno chiamato Heritage

Secondo Noell, la Maison non morirà mai. Gli anni che verranno saranno sempre più difficili, ma il marchio Noell Maggini resterà. Il sogno è che possa essere tramandato di generazione in generazione, non solo per scopo di lucro. Il marchio continuerebbe a vivere sulle passerelle anche se Noell e i suoi collaboratori fossero costretti a cambiare lavoro. 

Una blogger si è interessata alla storia di Noè, tanto da proporgli la stesura di una biografia. Il progetto attualmente è rimandato a data da destinarsi.

 

Senza fermarsi mai

Questa intervista è stata realizzata con Noell il 20 novembre 2020 e rivista insieme il 4 giugno 2021. Proprio in questo recente colloquio, lo stilista ha raccontato come la Maison sia in continua crescita e dei progetti in preparazione. Così Noell ha spiegato il tutto: “A distanza di mesi posso confermarvi quanto ci siamo detti in quella lunga intervista. Purtroppo è dura, ma non mancano la forza e l’impegno. Attualmente stiamo già pensando alla collezione invernale, con la possibilità di poter organizzare un evento in pieno stile Haute Couture”.

 

Grazie a Noè Maggini per la sua appassionante testimonianza.

 

A cura di Federica Volpicelli

Laureanda del corso di Organizzazione e Marketing per la Comunicazione d’Impresa Sapienza Università di Roma.
volpicelli.1646503@studenti.uniroma1.it

 

 

 

 

Scandagliando i fondali della cultura d’impresa.

Intervista a Massimo Orlandini

 

 Il 18 maggio 2021 la redazione di BiblHuB Sapienza, coordinata dalla prof.ssa Valentina Martino, ha avuto il piacere di incontrare Massimo Orlandini, esperto di cultura e comunicazione d’impresa e autore di saggi e monografie istituzionali su imprese quali Paolini Villani, Ligabue e Mavive-Vidal (quest’ultima recensita per BiblHuB da Luciana Caiella). Volumi che, grazie all’interessamento del loro Autore, sono oggi parte della raccolta libraria della BiblHuB Sapienza.

Spaziando fra riflessioni e aneddoti legati a una lunga esperienza professionale nel mondo dell’editoria e della comunicazione, Massimo Orlandini ha saputo colmare le distanze fra i partecipanti all’incontro, riuniti in videoconferenza, con un appassionato racconto della propria storia di cultore e collezionista del patrimonio industriale italiano, in anticipo sui tempi e sulle mode.

 

Figlio di Porto Marghera

Orlandini ha esordito raccontandoci come abbia sempre vissuto e respirato la realtà della fabbrica tramite l’esperienza di suo padre, tecnico aeronautico e poi del settore metallurgico, trasferitosi dalla Toscana a Porto Marghera nel secondo dopoguerra per lavorare in una grande azienda di produzione dello zinco elettrolitico e del piombo, l’allora Montevecchio-Monteponi del gruppo Montecatini. Si definisce anche per questo “figlio di Porto Marghera”. La sua passione per la ricerca, dapprima quella naturalistica (che lo vede, giovanissimo, al seguito di Giancarlo Ligabue, noto industriale e paleontologo veneziano) e poi quella applicata alla storia d’impresa, nel tempo è andata a focalizzarsi sulla memoria di uno specifico territorio che, a partire dagli anni ‘20 del Novecento, ha accolto fabbriche di grande rilevanza. La scelta di Orlandini è stata quella di studiare in modo sistematico le caratteristiche dell’area industriale di Porto Marghera, uno dei centri produttivi più grandi d’Europa, che presenta una vastità di settori merceologici e intrecci di filiera unici in Italia, talora in continuità con la tradizione veneziana delle arti e dei mestieri.

La ricerca storica portata avanti da Orlandini ha dato vita a una collezione di ben 7.000 pezzi ed è rappresentativa di una zona industriale e delle sue aziende, attive o meno a oggi, a testimonianza per le future generazioni. Dal 2017 Orlandini, in qualità di curatore, ha partecipato con la propria collezione storica all’allestimento di Venezia Heritage Tower, gioiello di archeologia industriale e centro culturale situato a Porto Marghera, che aspira a rappresentare sempre più un punto di riferimento per la valorizzazione della storia imprenditoriale dell’area metropolitana veneziana, con l’intento di farne una sorta di “museo delle imprese”.

 

Il metodo naturalistico applicato all’impresa

La scelta programmatica di Orlandini è stata di “creare un corpus di materiali non solo cartaceo e di editoria grigia, ma anche oggetti, fotografie, brevetti, insieme a qualsiasi cosa un’industria abbia prodotto nel tempo”. Per ricostruire la storia di un’azienda occorre infatti ricercare a tutto campo ciò che questa ha realizzato nel corso degli anni, cominciando proprio dal prodotto, vero focus della ricerca, in virtù di un assioma fondamentale: “Non si fa azienda se non c’è prodotto: quindi, bisogna andare a vedere i brevetti, cosa si produce, le eccellenze, il perché si produce in un certo posto, quali materiali si usano, le maestranze, i tecnici, il packaging […] tutta la comunicazione di un’azienda è fondamentale”.

Il riferimento al metodo scientifico-naturalistico applicato a scandagliare i fondali della cultura d’impresa è la metafora forse più espressiva per comprendere il peculiare approccio che sostiene gli studi, le mostre e le pubblicazioni di Orlandini, che nascono dalla ricerca di tracce e impronte storiche in grado di rivelare la cultura – e, dunque, l’anima – dell’impresa. Quell’impresa considerata spesso meramente un’organizzazione operante a scopo di lucro e che, tuttavia, rappresenta molto di più sul piano del vissuto individuale e collettivo, anche da un punto di vista socio-culturale.

I volumi che Orlandini ha dedicato ad alcune grandi imprese veneziane – Ligabue, Paolini Villani, finanche all’ultima fatica editoriale per la famiglia Vidal (Mavive), tra i vincitori del Premio OMI 2020 – testimoniano tangibilmente che l’impresa è storia, cultura, comunicazione. È fatta di prodotti che vivono sul mercato, ma anche di testimonianze del passato, spesso abbandonate o trascurate dalle imprese stesse. Capita così che la gran parte delle organizzazioni sottovaluti fin troppo facilmente origini, radici, trascorsi, cadendo nella trappola di un “presentismo” angusto e senza futuro.

Riconoscere il valore intrinseco del passato e volerlo preservare rappresenta invece un decisivo quid per l’identità di imprese e prodotti: è quanto segnala il filone di ricerca affermatosi a livello internazionale come heritage marketing, che valorizza la cultura e la memoria aziendali come importanti leve di marketing e comunicazione istituzionale.

 

Fonti, parola scritta, animazione culturale

Per Orlandini, una solida strategia heritage si basa su un irrinunciabile “trittico”, delineato nel corso dell’intervista, che può essere ricondotto ai “[…] tre assi portanti di una strategia heritage […]. Il principale è l’archivio storico, cioè le fonti, sulle quali le aziende devono imparare a investire con la creazione di un archivio proprio; il secondo è la monografia, che periodicamente fa il punto della situazione; quindi, il museo d’impresa, che può creare preziose opportunità di riflessione e dialogo sia all’interno dell’azienda che col territorio, in termini di memoria e identità. Questi tre elementi rendono un’azienda veramente attiva dal punto di vista culturale”.

Secondo Orlandini, la monografia è dunque uno degli elementi cardine dell’heritage aziendale, insieme all’archivio storico e al museo d’impresa. All’interno di questo mix, la peculiarità del libro attiene al suo ruolo “riflessivo”, decisivo per tenere viva la cultura di un’impresa, fare il punto periodicamente sulla sua identità, rigenerare lo spirito imprenditoriale aiutando chi gestisce l’azienda a superare i momenti difficili e a fare tesoro delle esperienze e degli errori del passato.

Da qui, due ulteriori riflessioni che portiamo a casa dal racconto di Orlandini: “Le aziende che sanno fare comunicazione, sanno affrontare i momenti difficili”, finanche a comprendere, nei casi più illuminati, che “con la cultura arrivano a fare business”. Due concetti ben sintetizzati dalla prof.ssa Martino che, nel corso dell’intervista, ha ricordato uno dei motti ai quali è più affezionata: “La comunicazione allunga la vita dell’impresa”.

Ci pare questa un’ottima conclusione riassuntiva del nostro articolo e del tempo, così intenso e formativo, trascorso con Massimo Orlandini.

 

Grazie a Massimo Orlandini per la sua testimonianza.

 

Claudia Solinas

solinas.1775054@studenti.uniroma1.it

Maria Patrizi

patrizi.1457229@studenti.uniroma1.it

 

Per un estratto della videointervista, si rinvia al canale YouTube della Biblioteca CoRiS:

https://youtu.be/618KlXBP8E0

 

Un osservatorio per le monografie d’impresa

Intervista a Tiziana Sartori e Stefano Russo

 

Precursore di riferimento e “incubatore” della BiblHuB Sapienza, l'Osservatorio Monografie d’Impresa è un centro culturale con sede all’Università di Verona. Dal 2011 raccoglie, conserva e valorizza le monografie istituzionali e le biografie di impresa o imprenditore edite per iniziativa delle imprese italiane.

Il 27 maggio 2021 la redazione della BiblHuB Sapienza ha avuto il piacere di intervistare Tiziana Sartori, direttrice dell’Osservatorio, e Stefano Russo, responsabile della comunicazione dell’Osservatorio, entrambi consulenti di grande esperienza nel mondo del marketing e della comunicazione aziendale.

 

L’Osservatorio e le sue attività

L’Osservatorio Monografie d’Impresa nasce a Verona tra il 2011 e il 2012 grazie all’idea del suo Presidente, Professor Mario Magagnino - docente di Comunicazione d’Impresa presso l’Univr - di creare un “Deposito monografie d’impresa” che, con l’arrivo di Tiziana Sartori e Stefano Russo, assumerà il nome e le funzionalità di “Osservatorio Monografie d’Impresa”. Un’associazione culturale, e dunque una realtà autonoma, che, da subito ospitata dall’Università di Verona, da circa due anni ha trovato casa nel Dipartimento di Economia aziendale dello stesso Ateneo.

 

Cuore dell’attività è l'Archivio bibliografico delle monografie, consultabile nella sede universitaria e in modalità digitale sul sito web dell’Osservatorio, dove sono presenti schede tecniche e immagini scelte dei volumi, predisposte dagli studenti dell’Università di Verona (www.monografieimpresa.it).

Ma sono molte altre le attività portate avanti dall’Osservatorio, tra queste il Premio OMI, che offre visibilità all’Osservatorio e permette di coltivare relazioni con professionisti e partner istituzionali (quali la stessa BiblHuB Sapienza), dalle quali nascano idee e collaborazioni. È un premio biennale, giunto nel 2020 alla quinta edizione, che celebra le migliori monografie d’impresa in Italia attraverso una doppia giuria di esperti del settore e studenti universitari, alla quale la Sapienza ha preso parte anche quest’anno.

A oggi, hanno partecipato alla manifestazione oltre 250 opere, molte delle quali appartenenti al filone della cosiddetta “letteratura grigia”: volumi prodotti autonomamente dalle aziende protagoniste di tali opere e da queste distribuiti in autonomia ai propri stakeholder come strumenti di Brand Communication. Anche per questa ragione, i libri d’impresa tendono a risultare difficilmente consultabili e reperibili, già a distanza di breve tempo dalla loro pubblicazione.

 

Tra passato e presente

Data l’esperienza pluriennale nel settore, abbiamo domandato agli intervistati quali siano le tendenze emergenti nel settore delle monografie istituzionali.

Russo è del parere che molti volumi si concentrino esclusivamente sul passato, assomigliando a libri di storia d’impresa piuttosto che ad artefatti di comunicazione, mentre invece in linea teorica “una monografia d’impresa ideale dovrebbe contiene il passato, il presente e i progetti per il futuro”. Di fatto, in una monografia, la storia non è mai fine a se stessa e rappresenta piuttosto un elemento di rilancio emozionale sul racconto del presente e del futuro di un’organizzazione. 

Questa ingombrante dominanza del passato rivela, secondo Tiziana Sartori e Stefano Russo, la difficoltà di concentrarsi sull’oggi e una certa paura a guardare avanti, specie nell’attuale momento storico:

“Quasi nessuno si concentra sul presente, oggi come oggi; c’è questo rifugiarsi nel passato – «dio, come eravamo belli, come eravamo bravi» – e una certa paura a guardare avanti. […] L’impressione è che ci possa essere, in questo valorizzare a tutti i costi il passato, il non avere coraggio per il presente e per il futuro, il nascondersi dietro un amarcord consolatorio”.

 

Tra presente e futuro

Secondo Tiziana Sartori, lungi dal decretare il tramonto definitivo della comunicazione analogica e su carta, la pandemia rilancia il desiderio di fisicità, esperienzialità: la voglia di stringere un libro, piuttosto che limitarsi a leggerlo online.

D’altro canto, è prevedibile che la perdita di fisicità, dovuta al lavoro e alle interazioni da remoto, concorrano a rendere meno centrale in futuro il racconto del fattore umano e dell’“impresa-comunità”. A causa della pandemia sono infatti venute meno molte occasioni di socializzazione all’interno dell’ambiente aziendale e tutto ciò tenderà inevitabilmente a rispecchiarsi anche nella comunicazione e narrazione d’impresa.

Secondo Tiziana Sartori:

“Data la carenza di trasmissione dello spirito di corpo aziendale, probabilmente nelle monografie assisteremo a una maggiore enfatizzazione degli aspetti ecologici, di ricaduta sul territorio, di raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030. Questo sarà il modo in cui molte imprese sceglieranno di trasmettere i propri valori, anziché basarsi sulle buone relazioni interne. La difficoltà a raccontare la vita nelle organizzazioni, il microcosmo affettivo interno, modificherà con buona probabilità anche la comunicazione istituzionale. Nelle monografie, magari si parlerà ancora più del passato e, per il futuro, soprattutto di obiettivi comuni a livello sociale”.

 

Un sentito grazie allo staff dell’Osservatorio Monografie d’Impresa per averci concesso questa piacevolissima intervista in tandem, così ricca di spunti e suggestioni. Con l’augurio che possa proseguire, anche per il futuro, un fecondo interscambio culturale e di esperienze con la BiblHuB Sapienza.

 

Maria Rosaria Scarioli

mariarosaria.scarioli@gmail.com

Francesco Paradisi

paradisi.1971821@studenti.uniroma1.it

 

Per un estratto della videointervista, si rinvia al canale YouTube della Biblioteca CoRiS:

https://youtu.be/3N-wWwTmgsU

 

 

 

Paesaggi d’impresa. 

La cultura industriale come valore condiviso

Intervista a Marco Montemaggi
 

Il 4 maggio scorso, la redazione della BiblHuB ha avuto il piacere di intervistare Marco Montemaggi, sociologo ed esperto di valorizzazione del patrimonio industriale, autore dei volumi Heritage Marketing (FrancoAngeli, 2007) e Company Lands (Edifir, 2020). All’attività di consulenza, che lo ha visto collaborare con importanti imprese del “fatto in Italia”, affianca da anni nell’insegnamento in istituzioni formative in Italia e all’estero.

L’intervista, condotta dalla Prof.ssa Valentina Martino insieme a chi scrive, è stata l’occasione per passare in rassegna le tendenze emergenti nel panorama dei musei e degli archivi d’impresa insieme a un testimone d’eccezione. Questi centri culturali, protagonisti in Italia di una diffusione capillare e senza pari al mondo, dal 2001 si raccolgono attorno Museimpresa, l’Associazione Italiana Archivi e Musei d’Impresa alla cui nascita Montemaggi ha partecipato e nella quale ha rivestito nel tempo molteplici cariche direttive, fra le quali la vicepresidenza.

 

Valorizzare la cultura industriale in Italia

La museologia d’impresa resta un tema poco frequentato fino alla fine degli anni Novanta, quando solo poche aziende italiane sono state lungimiranti nell’intuire il potenziale strategico della cultura d’impresa.

Il percorso di Marco Montemaggi inizia allora, con la creazione del Museo Ducati a Borgo Panigale, del quale è stato direttore dal 1997 per cinque anni. A questo progetto si dice a tutt’oggi particolarmente legato, perché è stato il primo della sua carriera, a soli 26 anni, e ha rappresentato un imprinting professionale d’eccezione.

Montemaggi ha proseguito raccontando le molteplici esperienze che lo hanno visto impegnato nel settore, fra le quali il progetto denominato “Terra dei motori”, volto a valorizzare la cultura motoristica dell’area emiliana. Da qui l’idea di dare vita a una più estesa “Motor Valley” alla quale ha collaborato come curatore scientifico: un percorso non solo culturale, ma turistico, legato alla manifattura meccanica.

Autonomia culturale e temporaneità

La professoressa Martino è intervenuta chiedendo come sia cambiato in Italia il settore degli archivi storici e dei musei d’impresa, dall’importazione a inizio Millennio dei modelli e delle strategie di heritage management di ispirazione anglosassone, fino ad arrivare allo scenario descritto nel più recente libro di Montemaggi, ispirato all’evocativa metafora dei “paesaggi d’impresa” (“company lands”).

Montemaggi risponde ricordando che “I musei e gli archivi d’impresa nascono nella stragrande maggioranza come il portato della volontà di costruire una strategia aziendale, come strumenti al servizio delle imprese”.

Tuttavia, dagli anni Novanta a oggi il ruolo di queste strutture è profondamente cambiato, vedendo in atto due principali tendenze. Da una parte, pur mantenendo una partnership con l’azienda dalla quale discendono, musei e archivi storici sono diventati soggetti culturali sempre più indipendenti, aperti agli stimoli del contesto e a un’articolata rete di alleanze. Questi centri tendono inoltre a trasformarsi, anche architettonicamente, in spazi di “temporaneità”, dove il racconto della storia d’impresa è affiancato da molteplici altri percorsi narrativi ed espositivi, pensati per coinvolgere un più ampio pubblico: non solo appassionati del brand, ma chiunque sia interessato a conoscere il nostro Paese in una chiave nuova e non convenzionale, legata alle eccellenze del “fatto in Italia”.

La cultura industriale come valore per il territorio

I luoghi dell’impresa diventano così un elemento di valore non più solo per singole imprese e marche, ma anche per il territorio al quale queste appartengono. Montemaggi sottolinea come in Italia vi sia un numero particolarmente elevato di archivi e di musei d’impresa rispetto alla dimensione del territorio: una “anomalia” che offre notevoli potenzialità di diversificazione dell’offerta culturale e della stessa accoglienza turistica “di distretto”.

Anche con l’avvento della pandemia e il conseguente protrarsi della chiusura al pubblico, i musei d’impresa hanno dato prova di sorprendente vitalità. Queste strutture sono state molto reattive nel dare vita a contenuti e percorsi digitali, promuovendo visite virtuali e altre forme di ingaggio dei pubblici on line. Al tempo stesso, Montemaggi sottolinea con convinzione l’importanza di tornare al più presto a fruire dal vivo di queste strutture e delle collezioni di oggetti ivi raccolti:

“I musei d’impresa hanno a che fare con la fisicità dei prodotti e degli oggetti: parliamo, infatti, di musei di aziende che producono oggetti. Oggetti, di uso quotidiano o meno, che come tali hanno una loro sostanziale “verità” nel poter essere osservati, nella loro tridimensionalità, nel poter addirittura essere toccati, in alcuni casi. La migliore fruibilità dei musei d’impresa resta dunque quella fisica, in quanto partecipata”.

Luoghi dell’impresa e turismo industriale

La speciale effervescenza della cultura d’impresa in Italia, che neppure la pandemia sembra dunque aver arrestato, segnala che “tante aziende hanno creduto e credono nel fatto che testimoniare il valore della propria storia sia un valore strategico. E significa che anche molti territori stanno credendo nel valore legato agli archivi e musei d’impresa”.

Il turismo industriale è in Italia un segmento ancora circoscritto, ma proprio per questo con un enorme potenziale di sviluppo e di collaborazione pubblico-privato, se commisurato all’attrattiva che l’Italia e le sue eccellenze produttive esercitano nel mondo.

I luoghi dell’impresa diventano così un elemento identificativo per i territori e i paesi di cui fanno parte. Ambasciatori di una “cultura del fare” che diviene un tutt’uno con il paesaggio, dando vita a esperienze e narrazioni sempre nuove del Bel Paese.

Grazie a Marco Montemaggi per la sua testimonianza!

 

Maria Patrizi

patrizi.1457229@studenti.uniroma1.it

Kateryna Zavalykhata

zavalykhata.1910227@studenti.roma1.it 

Per un estratto della videointervista, si rinvia al canale YouTube della Biblioteca CoRiS:

LINK VIDEO 

 

 

Storia e storie per raccontare l’impresa
Intervista a Daniela Brignone

  Daniela Brignone è archivista e storica d’impresa, curatrice dell’archivio storico e Museo Birra Peroni di Roma nonchè membro del consiglio scientifico e direttivo dell’associazione Museimpresa. È autrice di molteplici monografie aziendali quali Birra Peroni, Biscotti Gentilini, Ferrarelle e Groupama.

Il 14 aprile scorso la dott.ssa Brignone ha accettato l’invito della BiblHuB Sapienza a condividere la sua testimonianza sul ruolo dei libri nella comunicazione e nell’heritage d’impresa, fornendo una visione a tutto tondo del mondo dell’editoria aziendale. Nelle scorse settimane abbiamo avuto già modo di pubblicare un estratto della sua intervista, dedicato alla monografia di Biscotti Gentilini.

La sua carriera inizia nel 1993, con la stesura di una monografia celebrativa per la storica impresa romana Birra Peroni. Da allora, secondo la Dott.sa Brignone, il mondo dell’editoria aziendale è cambiato radicalmente: negli anni ’90 gli studi di storia d’impresa erano raramente commissionati, ma venivano spesso portati avanti da docenti di storia economica con un’impronta specialistica, piuttosto che divulgativa.

L’unione di due intenti: storia e comunicazione

Nell’ideazione della monografia aziendale per Birra Peroni, Daniela Brignone ha accolto la volontà dell’azienda di creare un prodotto che raccontasse la storia d’impresa attraverso “un volume esteticamente e iconograficamente interessante per un grande pubblico”, pur contemperando questa richiesta con una convinta attenzione al metodo di ricerca e al rigore storiografico.

L’attenzione per il duplice aspetto di forma e contenuto portava così alla stesura di “un bell’oggetto, che si prestava a vari livelli di lettura”. Un volume che, in un mix di fotografie e didascalie puntuali, cerca di evitare rischi e tentazioni di una retorica puramente agiografica.

 

Il libro aziendale come contesto identitario

“Il libro è tuttora un oggetto di grandissima efficacia sia sul fronte della comunicazione esterna che interna”.

La Dott.sa Brignone ha illustrato questo concetto citando il caso del nuovo libro fotografico intitolato “Birra Peroni. Lo sguardo degli altri” (Silvana Editoriale, 2020): da una parte, questo ha rappresentato soprattutto una operazione di comunicazione interna, in quanto il volume è stato donato e inviato a casa dei 730 dipendenti dell’azienda nell’anno della pandemia, con un enorme successo in termini di apprezzamento da parte degli stessi. Dall’altra, sul fronte esterno esso è stato divulgato sotto forma di audiolibro, in modalità podcast sul web.

 

Le storie non scritte e quelle in cantiere

Nella carriera della dott.ssa Brignone non sono mancati volumi per i quali ha portato avanti un lungo lavoro di ricerca e documentazione storica e che, tuttavia, sono rimasti incompiuti per via di avvicendamenti nei vertici e nella proprietà aziendale.
La sua passione per il food and beverage la porta a interessarsi a sempre nuove storie legate al territorio, come quella della pasta di Gragnano, alla quale le piacerebbe dedicare la sua prossima fatica editoriale.

 

Il libro, un evergreen

Le monografie d’impresa non sono una moda del momento, né un fenomeno puramente italiano. Il libro è, di fatto, “uno strumento che moltiplica il senso di appartenenza per tutti i dipendenti che, anche semplicemente sfogliandolo, capiscono la storia più grande entro la quale è scritta la propria storia personale e professionale”.

La Dott.sa Brignone sottolinea così lo speciale valore identitario del quale i libri sono portatori, anche quando voluti ed editi per iniziativa di imprese interessate a raccontarsi ai propri stakeholder.

 

Libri d’impresa: istruzioni per l’uso

Secondo la dott.ssa Brignone, una monografia riuscita “non deve essere una storia avulsa da un contesto più vasto. Sono molto contraria a libri agiografici”. Inoltre, “deve essere un bel l'oggetto e lasciare molto spazio alle immagini; creare emozioni mettendo in risalto la componente umana”.

Attraverso una sapiente combinazione di testo e immagini, la storia di un’organizzazione affidata alle pagine di un libro può così calarsi entro contesto e una narrazione più grandi, nei quali i singoli e il territorio possano riconoscersi.

 

Grazie a Daniela Brignone per la sua appassionante testimonianza.

 

di Valerio Moro
Laureando del corso di Organizzazione e Marketing per la Comunicazione d’Impresa

Sapienza Università di Roma
moro.1723312@studenti.uniroma1.it

 

Per un estratto della videointervista, si rinvia al canale YouTube della Biblioteca CoRiS:
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Cultura d’impresa e sostenibilità: il caso Heritage Hub
Dialogo con Gianfranco G.M. Gentile, Heritage Marketing & Communication Manager in Stellantis (Enlarged Europe)

 

  L’intervista all’Heritage Marketing and Communication Manager di Stellantis, Gianfranco Gentile, nasce da un’intuizione della professoressa Valentina Martino (docente di Comunicazione Organizzativa e di Corporate presso la Sapienza) ed è inserita all’interno del mio progetto di tesi di laurea magistrale, dedicato agli intrecci fra heritage management e sostenibilità nel settore automobilistico. 

L’obiettivo dell’incontro con il Dott. Gentile, avvenuto su Google Meet il 23 febbraio 2021, è stato quello di approfondire la realtà dell’Heritage Hub di Torino, attraverso il racconto di un testimone privilegiato, indagando il legame tra cultura d’impresa e il tema della sostenibilità, quanto mai attuale.

 

L’esperienza dell’Heritage HUB

L’Heritage Hub è un centro culturale unico e rappresentativo dell’incontro tra passato, presente e futuro. Questo “archivio tridimensionale”, che ha sede nello stabilimento di Mirafiori a Torino, nasce al fine di valorizzare e promuovere la collezione aziendale di auto d’epoca di quattro storiche case automobilistiche italiane: Fiat, Lancia, Alfa Romeo e Abarth. Gli oltre 15.000 m² di superficie ospitano otto aree tematiche e più di 300 vetture, che coprono un arco temporale di oltre un secolo. A pochi passi dall’Heritage Hub, presso le Officine Classiche, il Dipartimento Heritage mette a disposizione di esperti, collezionisti ed appassionati una vasta gamma di servizi (come la certificazione di autenticità o il restauro conservativo di auto d’epoca).   

L’intervista ha toccato molti punti importanti (come la scelta della sede dell’Heritage Hub, gli strumenti di comunicazione utilizzati per raccontarlo e il rapporto con il territorio) ed è stata fonte di riflessioni significative. Mi ha permesso di confermare la tesi che avere una grande storia alle spalle, e saperla valorizzare, possa essere fonte di ispirazione e un importante vantaggio competitivo per le imprese. Queste le parole che lo testimoniano:

“Lavorare con dei brand così importanti, che in tempi così rapidi hanno percepito l’importanza della propria storia e hanno cercato di comunicarla e valorizzarla, è un task sicuramente ambizioso perché il nostro dipartimento coordina le attività su 4 marchi italiani e tre di questi hanno più di 100 anni. Quindi c’è tanto da dire, ma nello stesso tempo il racconto di una storia di innovazioni e successi è uno strumento fondamentale (oggi più che mai) per differenziare il nostro prodotto da quello dei competitor, in un momento e in un contesto come quello attuale che è estremamente globalizzato e che vede la continua nascita di nuovi player sul mercato. […] Diventa importante per marchi storici come quelli europei (e i nostri in particolare) differenziare il prodotto, raccontandone il valore storico e simbolico. Non è un caso che buona parte dei prodotti attuali riprendano nomi e linee di illustri prodotti storici, proprio perché il messaggio che si vuole raccontare è quello di aziende e marchi automobilistici che hanno una lunga storia e anche una profonda conoscenza del prodotto automobile, e che quindi continuano una tradizione di grande successo.”

 

Sostenibilità ambientale e impegno storico

Uno dei temi centrali dell’intervista è quello della sostenibilità ambientale legata alla mobilità, un vero trend esploso negli ultimi anni (non solo nel settore delle automobili). I marchi Fiat e Lancia, come abbiamo avuto modo di apprendere, conoscono e sperimentano da molto tempo tecnologie green. All’interno dell’Heritage Hub è stata dedicata a questa tematica un’intera area. Il Dott. Gentile ci spiega perché:

Per dimostrare che il tema della sostenibilità ambientale non è un argomento esclusivamente contemporaneo, ma è una tematica che ha sempre trovato una sua importanza all’interno della produzione aziendale. Noi abbiamo scelto di dedicare l’area tematica Eco & sustainable in Heritage Hub a una serie di vetture che sono esplicitamente dedicate al tema della riduzione delle emissioni ed all’utilizzo di combustibili alternativi. […] Teniamo presente che la X1\23, che è la più antica delle vetture esposte, ha circa 50 anni, perché è un progetto dell’inizio degli anni ‘70. […] Però in realtà in Hub esponiamo esempi di sostenibilità ambientale ante litteram, anche in vetture degli anni ‘30.”

Un impegno che va avanti da decenni e che se comunicato in modo efficace ai propri consumatori non può che essere percepito positivamente dal mercato:

Il bagaglio culturale non è qualcosa di astratto, non è un concetto alto, così come non lo è quello della cultura d’impresa fondamentalmente. Sono distillati di conoscenza e competenze dei dipendenti che compongono quell’impresa. Quindi sicuramente il fatto di conoscere ed avere coscienza di questo tipo di tematiche da parte delle persone che progettano le auto, oggi consente all’impresa stessa di porsi in una posizione privilegiata in questa battaglia per la salvaguardia dell’ambiente. Poi sicuramente il racconto di questa conoscenza e competenza al pubblico permette anche di ottenere un vantaggio competitivo.”

 

Fiat 500: racconto di un’icona

È stata dedicata parte dell’intervista all’iconica Fiat 500, protagonista indiscussa della collezione in tutte le versioni presenti all’interno dell’Hub. Molte le storie poco note su questa vettura e grande la letteratura che accompagna il racconto di questa piccola grande star conosciuta e amata in tutto il mondo:

C’è un vero e proprio fenomeno di consacrazione di questo modello come oggetto artistico e di design.  È un’auto che ha veramente fatto la storia. Per noi italiani ha fatto la storia della mobilità, della democratizzazione della mobilità, della possibilità per tutti, per gli operai, per gli studenti, per i giovani, per le donne di iniziare a guidare ed essere finalmente indipendenti. È sicuramente un oggetto che ha una grande valenza sociale e a questo si associa una grande valenza progettuale […] È un’auto importante anche a livello di design e di ingegneria. E poi è diventata un’icona dell’Italia degli anni ‘50, di quel periodo di spensieratezza, di bellezza semplice, che fa poi la fortuna della comunicazione turistica del nostro Paese all’estero. Per tutte queste ragioni ovviamente la 500 non poteva mancare all’interno dell’esposizione, che infatti valorizza una selezione di esemplari assolutamente rilevanti”.

 

La Nuova Fiat 500 elettrica è già storia

Un focus sulla Nuova Fiat 500 elettrica ha fatto emergere il legame fra innovazione, mobilità green e patrimonio culturale di una vettura che ha fatto la storia. A neanche un anno dalla sua presentazione al grande pubblico, questo modello è già stato inserito all’interno dell’esposizione, come punta di diamante di una lunga serie di sperimentazioni e successi. Questa scelta ci viene spiegata così:

Perché la storia si fa ogni giorno. Non c’è l’idea di bene culturale come qualcosa che debba avere un determinato intervallo di tempo prima di essere considerato un oggetto rilevante. Nel nostro caso, ma credo che valga per tutte le aziende che hanno dei musei aziendali, l’inserimento di un determinato modello all’interno della collezione aziendale lo rende immediatamente oggetto di attenzione, perché si decide di preservarne un esemplare per le generazioni future. [...] La preservazione del patrimonio non si fa soltanto nei confronti del passato ma anche del presente perché “nel futuro il nostro presente sarà il passato”.

 

Grazie al dott. Gentile per la sua ispirante testimonianza.

di Caterina Gervasio
Laureanda del corso di Organizzazione e Marketing per la Comunicazione d’Impresa - Sapienza Università di Roma
gervasio.1745548@studenti.uniroma1.it

 

Un estratto audio sul canale YouTube della Biblioteca CoRiS:

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L’editore e la bellezza dell’impresa.
Intervista a Florindo Rubbettino

 

  I libri d’impresa, che la BiblHuB Sapienza raccoglie, studia e valorizza, sono frutto dell’intenzione editoriale delle aziende stesse. In alcuni casi, queste ultime scelgono di pubblicare in autonomia le proprie storie; in altri, invece, l’iniziativa libraria incontra il mercato editoriale. É questo il caso della collana “La bellezza dell’impresa”, che Rubbettino Editore ha dedicato alle storie aziendali. Molti di questi volumi, in parte concessi dalla stessa casa editrice, fanno parte del fondo BiblHuB Sapienza.

In questo nuovo appuntamento con la rubrica “Quando l’impresa si fa libro” abbiamo avuto occasione di intervistare Florindo Rubbettino, presidente della casa editrice nata nel 1972 e docente di Editing nel corso di Laurea in Scienze della Comunicazione all’ Università del Molise.

Nella sua carriera di editore, di libri ne ha pubblicati tanti, comprese edizioni sui generis come le monografie d’impresa. Ma qual è il compito di un editore nel processo di ideazione e gestazione di un libro d’impresa? “Il ruolo che un editore ha di fronte a qualunque tipo di progetto è un ruolo progettuale, maieutico: provare a far tirar fuori, all’autore o al protagonista, la storia” – esordisce Rubbettino.

Con tutto il loro fascino, le storie d’impresa vivono nella realtà e possono essere rivissute in un libro, ogni volta che qualcuno ne sfoglie le pagine. L’atto stesso di aprire e chiudere un libro racchiude in sé l’essenza dell’immortalità, di un ciclo continuo fatto di nuove scoperte e di eterno ritorno.

Ed è lo stesso Rubbettino a sottolineare l’eccezionalità di una tecnologia quale il libro: “Credo che il libro sia un oggetto straordinariamente innovativo. Continua a essere uno strumento innovativo perché tecnologicamente molto performante per mille ragioni: è comodo, pratico, costituisce uno strumento straordinario. Credo che il libro sia anche, a differenza di altri strumenti per comunicare, un bellissimo oggetto di design con il quale il lettore instaura un rapporto non solo spirituale - quale strumento attraverso il quale fruire dei contenuti materiali, cioè la storia che vi è contenuta - ma anche decisamente fisico”.

Dopo un 2019 record per l’editoria, il 2020 e il 2021 sono stati segnati dalla crisi pandemica, con effetti conseguenziali a favore del digitale e della dematerializzazione della cultura. Ma, in verità, in un momento come questo, in cui siamo stati costretti a fermarci e a rimettere in discussione le nostre certezze, si è tornati alla vera essenza delle cose: così, nel mondo editoriale, “si è rimessa al centro l’importanza dei contenuti. Noi abbiamo visto che, alla fine, al di là del device o dello strumento attraverso il quale fruiamo dei contenuti, la centralità nel mondo dell’editoria è data dal contenuto. Tanto più è di qualità il contenuto, tanto meglio l’editore avrà fatto il suo mestiere”.

Per Rubbettino, il vero senso della missione di un editore è scovare quelle storie che meritano di essere raccontate e mostrarle al mondo nella migliore veste possibile. Quanto alle aziende, esse stanno comprendendo sempre più l’importanza dell’auto-narrazione, perché: “Un’impresa non è fatta solo di prodotti. É fatta di persone, di valori, di storie, di territori che devono essere raccontati, perché nella società contemporanea il consumatore non acquista più solo un prodotto scegliendolo in base al prezzo e alla qualità, ma molto spesso per via dei valori immateriali che quel prodotto incorpora in se stesso. Valori di territorio, di visione, di etica, di storie che un’azienda sappia raccontare. Le imprese hanno capito che, prima ancora di parlare della qualità dei prodotti o di esporre il prezzo, hanno bisogno di raccontare i valori che stanno dietro a prodotti e organizzazioni”.

D’altronde, la speciale affinità fra le nostre imprese e l’editoria libraria la dice lunga sul fatto che i libri rappresentino non solo una forma di racconto del “fatto in Italia”, ma un esempio vincente di Made in Italy in sé: “L’Italia è il paese del Made in Italy e, quindi, della capacità di fare cose belle. E quale oggetto più di un libro, che oltre ad essere contenitore di contenuti è un oggetto che si presta a mille declinazioni di design, può avere questa caratteristica?”

Grazie a Florindo Rubbettino per la sua testimonianza.

 

Maria Rosaria Scarioli e Paolo Brescia

mariarosaria.scarioli@gmail.com

paolo.brescia@uniroma1.it

 

Una sintesi video dell’intervista sul canale YouTube della Biblioteca CoRiS:

 

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Uno sguardo al futuro della comunicazione d’impresa fra cambi di scenario e Covid-19.
Dialogo con Manfredi Calabrò, CEO di Havas Milan

 

  L’occasione di un’intervista al CEO di Havas Milan, Manfredi Calabrò, nasce nel contesto di un progetto universitario coordinato alla Sapienza dalla professoressa Valentina Martino, docente di Comunicazione Organizzativa e di Corporate. Un’opportunità unica: quella di mettersi in gioco in prima persona, fare ricerca sul campo e dialogare con autorevoli professionisti.

Lo studio che ho avuto modo di condurre ha puntato a esplorare una delle realtà storiche più rilevanti nel settore della comunicazione: il gruppo Havas, storica agenzia di stampa e oggi gruppo protagonista nello scenario internazionale con i suoi oltre 60 “Village” e 20.000 talenti esperti in tutte le discipline della comunicazione. Nel panorama italiano le città di riferimento sono Milano, Torino e Roma.

Quanto a Calabrò, è un manager di livello internazionale, con molteplici esperienze in Italia e all’estero, nelle agenzie più rilevanti del panorama pubblicitario. L’intervista, realizzata via Face-Time nel novembre 2020 e successivamente trascritta, è stata dunque l’occasione per analizzare insieme a un testimone privilegiato come stiano cambiando la pubblicità e la comunicazione d’impresa nell’attuale periodo storico, con speciale riferimento agli effetti dell’emergenza sanitaria e ai possibili scenari e spunti di riflessione futuri.

Il mondo delle imprese, della comunicazione, come pure la semplice realtà di cui tutti facciamo parte, sono infatti cambiati radicalmente. Non solo per Havas, ma per tutti noi, c’è un prima e un dopo il 2020; da ciò deriva che anche le strategie e gli strumenti di comunicazione, nonché gli obiettivi e i linguaggi, debbano essere interpretati e declinati secondo un nuovo framework.

Il COVID-19 è stato la spinta motrice che ha aperto le porte a nuove tendenze che, volenti o nolenti, continueranno a fare parte delle future vite di ognuno. Se i bisogni delle persone cambiano, cambia di conseguenza anche la comunicazione promossa dalle aziende e dai brand che fanno parte del nostro vissuto quotidiano. 

Dunque, come questi hanno affrontato il nuovo contesto creato dalla pandemia? Se in un primo momento l’andamento generale è stato, in un certo senso, attendere la fine della crisi, in un secondo momento ci si è resi conto di essere all’inizio di un’onda lunga di cambiamento. Gli effetti e le ricadute della crisi prospettano, del resto, la speranza di una “nuova normalità”, certamente diversa da quella alla quale eravamo abituati in passato.

 

Il repentino riposizionamento del mercato della comunicazione

Non è possibile leggere il futuro e sapere per certo cosa accadrà, ma certamente evitare di farsi trovare del tutto impreparati grazie a una costante raccolta di informazioni e analisi. In questo senso, a partire dall’osservatorio privilegiato di una realtà come Havas Milan, l’intervista a Manfredi Calabrò ha offerto molti spunti di riflessione e ispirazione, delineando un repentino riposizionamento da parte del mercato della comunicazione con l’inizio della pandemia:

Come hanno reagito i clienti? Con precauzione, rivedendo la spesa degli investimenti media. Rispetto al 2019 la pubblicità ha chiuso il 2020 con un -11% che porta la raccolta pubblicitaria ad un totale di 7,8 miliardi; persi, quindi, circa un miliardo. Nel 2019 dopo i primi due mesi di crescita, il primo lock-down (marzo-giugno) ha bruciato 1.058 milioni, il secondo (ottobre-dicembre) solo altri 22 milioni, segno che gli operatori hanno ripreso a investire e comunicare con ritmi pre-crisi. Volendo approfondire il dato per canale, perdono maggiormente i mezzi affetti più direttamente dalla pandemia a dalle limitazioni di circolazione che ne sono derivati (Outdoor, Transit e Direct Mail), la TV in flessione del 9,5% mentre il Digitale lascia per strada soltanto un 2,1%. Meno bene Quotidiani e Periodici, in leggera ripresa – che fa ben sperare – solo nel mese di dicembre.

E aggiunge Calabrò: “Tocca però riempire il bicchiere per metà: la pandemia ha permesso a mezzi pubblicitari classici di colpire target che, per comportamento di utilizzo, non avrebbero mai potuto raggiungere. Pensiamo alla Generazione Z, così difficile da intercettare. Di colpo, giovani e giovanissimi, costretti a restare in casa e godere di una dieta mediatica condivisa con la famiglia, sono stati esposti largamente al mezzo televisivo, per la gioia di aziende che pianificando sul core target di riferimento (Millennials e Gen X) hanno fatto anche incetta di nuove teste”.

 

Nuovi consumi e nuovi simboli

In questo scenario, rapidamente rivoluzionato a seguito della pandemia, il crollo pubblicitario è dipeso soprattutto dall’andamento dei consumi e dalle scelte, spesso obbligate, di alcune categorie di investitori: “Abbiamo assistito alla fuga di tanti inserzionisti, primi fra tutti le grandi marche dell’Automotive: una industry, questa, che ha sempre vantato investimenti generosi e che si è vista ridimensionare largamente i volumi commerciali a causa del blocco della circolazione cittadina, della chiusura delle concessionarie sul territorio e della scelta dei consumatori, più che comprensibile, ad incentrare il proprio potere d’acquisto verso beni più strettamente necessari”.

Durante i mesi di lock-down totale, il cibo ha confermato la propria natura di fattore e bene simbolico. I supermercati sono stati presi d’assalto. Basti pensare, per esempio, ai dati sulla corsa all’acquisto di carta igienica e persino alle risse, in alcuni supermercati, per accaparrarsi le ultime scorta. La spiegazione di questa anomala domanda di un bene primario sta nella necessità umana di dover tenere sotto controllo almeno l’ordinario, garantendosi la risoluzione di piccoli problemi quotidiani in un momento di profonda incertezza.

 

Responsabilità e narrazioni condivise

Più in generale, la pandemia ci ha ricordato che i modi di pensare e, di conseguenza, fare pubblicità sono in costante evoluzione. Che esiste una forte correlazione con il contesto, che li influenza e che essi influenzano a loro volta. La realtà e ciò che accade intorno, soprattutto in momenti di crisi, riescono ad essere un forte acceleratore per tendenze che si manifestano concretamente nei modi di fare comunicazione, nei flussi e nei contenuti comunicativi.

A dispetto di qualunque pianificazione a medio-lungo termine, oggi più che mai la comunicazione è chiamata a misurarsi con cambiamenti di clima che possono essere repentini e inaspettati.

Ed è così che, tra folgoranti intuizioni ed errori di prospettiva, il cambiamento di registro comunicativo imposto dalla pandemia pare destinato ad alimentare anche una rinnovata consapevolezza circa il ruolo sociale della pubblicità, la sua capacità di fare significato e proporre narrazioni condivise:

“Questa crisi sanitaria ha velocizzato ed accentuato diversi processi comunicativi e, ancor più maggiormente, tecnologici. Il passaggio dallo storytelling allo storydoing non è più solo consigliato, ma imposto. Serve trovare un beneficio collettivo che scardini benefici funzionali e personalistici. Cosa può fare questo prodotto per la comunità?

Di fatto, le marche hanno una grande responsabilità: diventare costruttori di futuro. E la pubblicità, che ha un ascendente importante sulle persone, se fatta bene può essere ancora motivo di grande orgoglio”.

 

Mi sembra la migliore conclusione per questa intervista. Grazie ancora a Manfredi Calabrò!

 

Claudia Solinas

Studentessa della laurea magistrale in Organizzazione e Marketing per la Comunicazione d’Impresa - Sapienza Università di Roma

<solinas.1775054@studenti.uniroma1.it>

 

 

Quando l'impresa si fa libro:
Il mestiere di raccontare l'intangibile

Intervista a Marzia Tomasin, ghostwriter e narratrice d’impresa

 

  Nell’ambito del progetto BiblHuB, l’Università Sapienza è impegnata nella raccolta e nello studio dei libri d’impresa, siano essi monografie istituzionali o altri generi minori.

La missione del progetto è indagare e valorizzare l’esperienza delle sempre più numerose imprese che decidono di “farsi libro”, donde anche il nome di questa rubrica di approfondimento. In questo intento ho provato a fare luce sull’identità di una delle figure chiave più misteriose nel mondo della letteratura imprenditoriale: la ghostwriter.

Ma perché cominciare questo ciclo di interviste proprio da una ghostwriter, e non magari da una figura interna a quelle aziende che abbiano scelto le pagine di un libro per raccontarsi?

Perché parlare con una ghostwriter permette di capire la magia e i trucchi del mestiere che ci sono dietro un libro d’impresa.

La scrittura da parte di terzi cerca di essere più oggettiva e vera, parla senza svelare il proprio nome, celato nell’inchiostro scuro e dietro un mantello di carta. Affidare la propria storia a qualcun altro significa, d’altronde, permettergli di conoscerci profondamente, di capire come raccontarci agli altri.

 

É nata così l’idea di intervistare Marzia Tomasin, ghostwriter e narratrice d’impresa che ha testimoniato cosa significa racchiudere l’essenza imprenditoriale in un libro.

Il lavoro di narratrice d’impresa è simile al sarto che cuce un vestito a pennello per il cliente: un libro non è mai uguale a un altro e, nelle parole di Tomasin, trapela l’entusiasmo che mette in questo suo lavoro “su misura”.

In un’epoca sempre più digitalizzata, il ritorno all’analogico sembra anacronistico e poco all’avanguardia. E invece il libro, oggi più che mai, può rappresentare uno strumento rivoluzionario, particolarmente duttile sul piano del design identitario rispetto ad altre e più moderne forme di produzione letteraria.

Per Tomasin può esistere un rapporto di comunicazione integrata tra le diverse modalità di racconto, ma il libro di carta resta il contenitore che più si presta a racchiudere in sé il patrimonio intangibile di un’organizzazione.

Per un’impresa, esprimere al meglio il proprio essere vuol dire mostrarsi nella veste migliore, sia fisica che valoriale. Ed è proprio su questo che molte aziende inciampano. Chi meglio di un professionista esterno può oggettivamente comprendere quando il giusto merito rischi di sfociare nell’autocelebrazione?

Al proposito, Tomasin suggerisce di lasciare spazio soprattutto ai prodotti, ai luoghi e alla voce di chi lavora in azienda, piuttosto che elencare da, premi e riconoscimenti. La consuerarchia di importanza va invertita nella scaletta di un libro.

L’aspetto più appassionante dei libri d’impresa (lo si legge nell’emozione di Marzia Tomasin quando ne parla) è mostrare gli “immensi capitali narrativi” delle aziende italiane; che non sempre, però, queste scelgono di raccontare e condividere con l’esterno. Il pensiero va naturalmente al periodo che stiamo vivendo e al coraggio necessario affinché un’impresa decida di investire sul proprio patrimonio intangibile, ovvero sulla propria “cultura”. Quest’ultima rappresenta una garanzia di prosperità e di futuro; analogamente, un libro è un investimento a lungo termine, produce valore, “lavora per l’impresa”.

L’obiettivo della BiblHuB Sapienza e di professionisti come Marzia Tomasin è quello di far sì che il velo che nasconde i tesori dell’imprenditoria italiana possa essere sollevato. E che un libro possa rappresentare, nel tempo, simbolo di lungimiranza e condivisione.

 

di Maria Rosaria Scarioli

Laureanda in Organizzazione e Marketing per la Comunicazione d’Impresa

mariarosaria.scarioli@gmail.com

 

 

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