Grani di Sapienza

 

 

Grani di Sapienza

(non solo Leopardi)

riflessioni sul presente e sul passato

attraverso parole di autori di ogni epoca e lingua

libri che ci piacciono

e che ci hanno stimolato pensieri

senza metodo né periodicità

con o senza commento

buona lettura.

 

 

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La Grecia e l’Europa

(o una certa Grecia e una certa Europa)

11 luglio 2020

a Franco

 

«I had begun to grasp, in the past few weeks, one of the great and unconvenanted delights of Greece; a pre-coming-of-age present in my case: a direct and immediate link, friendly and equal on either side, between human beings, something which melts barriers of hierarchy and background and money and, except for a few tribal and historic feuds, politics and nationality as well. It is not a thing which functions in the teeth of convention, but in almost prelapsarian unawareness of its existence. Self-consciousness, awe and condescension (and their baleful remedy of forced egalitarianism), and the feudal hangover and the post-Fall-of-the-Bastille flicker—all the gloomy factors which limit the range of life and deoxygenize the air of Western Europe, are absent. Existence, these glances say, is a torment, an enemy, an adventure and a joke which we are in league to undergo, outwit, exploit and enjoy on equal terms as accomplices, fellow-hedonists and fellow-victims. A stranger begins to realize that the armour which has been irking him and the arsenal he has been lugging about for half a life-time are no longer needed. Miraculous lightness takes their place. On this particular evening the exhilaration was reinforced by other things: my mind was full of the events of the day, the smell of gunpowder, the cannon-fire at dawn which had achieved the innocence of fireworks as the bangs had echoed upstream; the first glimpse, in fact, of warfare. By then I felt I had almost taken part in the battle. The hoofs hammering over the loose planks of the bridge still rang in my ears and the songs on the long ride. On top of this came the beautiful ascent through the foothills, the sunset arrival at the encampment, and now, the voices and laughter and the gold firelit masks of the nomads in this hut in the dark mountains; the tiredness of limb, the feeling of being lost in time and geography with months and years hazily sparkling ahead in a prospect of unconjecturable magic—the fusion of all this made it seem that life, at that moment, had nothing more to offer».

P. L. Fermor, Roumeli. Travels in Northern Greece, 1966

 

«Avevo cominciato ad afferrare, nelle ultime settimane, uno dei grandi e non pattuiti piaceri della Grecia; un dono dell’incoscienza, nel mio caso: un legame diretto e immediato fra esseri umani, amichevole e uguale da entrambe le parti, qualcosa che scioglie le barriere della gerarchia, dell’educazione e dei soldi e, con l’eccezione di qualche storico feudo tribale, della politica e della nazionalità. Non è qualcosa che avviene nonostante le convenzioni, ma in una specie di ignoranza delle convenzioni stesse, precedente al peccato originale. Coscienza di sé, soggezione e paternalismo (e il minaccioso antidoto dell’egalitarismo forzato), lo strascico della sbornia feudale e le ombre successive alla Presa della Bastiglia – tutti i fattori deprimenti che limitano il raggio della vita e rubano ossigeno all’Europa occidentale, qui sono assenti. L’esistenza, dicono questi sguardi, è un tormento, un nemico, un’avventura e un brutto scherzo che – da alleati – dobbiamo affrontare, vincere con furbizia, sfruttare e gustare allo stesso modo, come complici, compagni di piacere e compagni di sventure. Uno straniero comincia a capire che la corazza che lo ha irritato a lungo e l’arsenale che ha continuato a trascinarsi attorno per metà della vita non sono più necessari. Prende il loro posto una miracolosa leggerezza. Quella sera l’euforia fu rinforzata da altre cose: la mia mente era piena degli eventi del giorno, l’odore della polvere da sparo, il fuoco dei cannoni all’alba che aveva spento l’innocenza dei fuochi d’artificio, appena i colpi erano risuonati a monte; di fatto, il primo barlume della guerra. Allora sentii che avevo già quasi preso parte alla battaglia. Gli zoccoli martellanti sulle assi traballanti del ponte mi risuonavano ancora nelle orecchie, insieme alle canzoni ascoltate in quel lungo giro. Come se non bastasse, arrivò la bellissima salita tra le colline, l’entrata nell’accampamento al tramonto, e ora, le voci e le risa e le maschere dei nomadi accese di luce nella baracca, fra i monti oscuri; la stanchezza degli arti, la sensazione di essere perduti nel tempo e nella geografia, con i mesi e gli anni che ti scintillano confusamente davanti, nella promessa di una magia impossibile da congetturare – il mescolarsi di tutto questo faceva sembrare che la vita, in quel momento, non potesse offrire niente di meglio».

(traduzione di Hermes)

 

 

Patrick Leigh Fermor (1915-2011) non è, forse, l’homo europaeus di cui sentiva la nostalgia e favoleggiava il primo Novecento, quel Novecento che – a Vienna come a Parigi o Firenze – ha sentito la cultura come l’ultimo baluardo per l’Occidente vicino alla sua fine. Lettore coltissimo, Fermor alla cultura preferisce l’esperienza, il piacere del rapporto umano, dell’immaginazione, del viaggio. Sa che la cultura è anche una gabbia. E che il dissidio cultura/natura è il problema dei problemi lungo tutta la storia dell’uomo occidentale, dal peccato originale alla Rivoluzione francese, citati nel testo. Sa anche – diversamente da tanti viaggiatori-scrittori, specialmente italiani, della prima metà del secolo ventesimo – che la Grecia non è solo rovine, grandezza passata e sapienza classica. La sua è una Grecia diversa: è forse soprattutto semplicità e vitalità – la vitalità, a volte anche malinconica, del suo presente.

In questa pagina di Roumeli – un libro non ancora tradotto in italiano – si alternano narrazione e pensiero, in una specie di antropologia-lampo dell’uomo europeo novecentesco, stretto nella maglia delle convenzioni: la società è un luogo spesso privo di ossigeno, quando dovrebbe essere una lega di alleati appassionati, nel piacere e nel dolore. A Leopardi, probabilmente, non dispiacerebbero queste righe.

All’egualitarismo si sostituisce l’uguaglianza, alla guerra reale – qui presentita: Fermor sarà poi un grande protagonista della resistenza al Nazismo, a Creta – si affianca qui la guerra quotidiana, come dicono le due metafore dell’armatura e dell’arsenale. Ma è la magia della Grecia a far sì che chi scrive possa continuare a sentire (vedi la velocissima, coinvolgente descrizione sensoriale delle ultime righe): a percepire la vita che scorre, e a gustarla fino in fondo. Ed è l’affastellarsi delle sensazioni nel finale – non il controllo della ragione – a far pensare a un unconjecturable magic, un’inaspettata magia. La leggerezza è un miracolo.

Chi scrive non ha paura di dire “io” (come nell’attacco, molto netto, di questi paragrafi: «I had began…» ). La penna di Fermor è lontana da giochetti sperimentali o finzionali: scrittura e esistere convivono sul filo della necessità, non dell’arte. Diceva Fermor che quando si scrive lo si fa pensando come a un very close friend, un amico molto caro. Sarà per questo che la sua voce ci arriva come nuda, a volte ironica ma sempre potentemente naturale, priva di trucchi: una voce umanissima e fraterna, sospinta dalle sue splendide suole di vento.

 

Hermes

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