EU-Turkey relations 2024

 

  • aprile (in corso di aggiornamento) il PE e il Consiglio raggiungono un accordo sul sostegno del piano di riforma e crescita per i Balcani occidentali. Si tratta di “un'offerta senza precedenti”, i Balcani occidentali potranno accedere ad alcuni vantaggi derivanti dall’adesione all’UE prima dell’adesione senza che le tensioni nella regione siano risolte. Il Parlamento europeo approva il nuovo Patto su migrazioni e asilo. Gli atti legislativi che lo compongono stabiliscono regole comuni per normare l’accoglienza e la ricollocazione dei richiedenti asilo, riformando l’attuale sistema di gestione delle politiche migratorie. Per l'attuazione del Patto manca ora la ratifica dal Consiglio europeo ma saranno necessari due anni perché sia operativo. Salutato come una tappa storica, per quanti sono impegnati nel salvataggio e nell'accoglienza dei migranti l'accordo è invece il fallimento della solidarietà.  Tutti i nuovi regolamenti contengono elementi fortemente critici dal punto di vista della tutela dei diritti fondamentali delle persone, fornisce  veste giuridica a quelle pratiche vessatorie nei confronti dei migranti fino ad ora considerate illegali. Il governo israeliano emana una legge per impedire alle reti mediatiche straniere (leggi al-Jazeera) di operare in Israele e bombarda il consolato dell’Iran a Damasco.  L’attacco si inserisce in una “una logica di escalation” nel tentativo da parte di Netanyahu di provocare un conflitto regionale per alleggerire le critiche USA sul modo di condurre la guerra a Gaza. Il massacro di sette cooperanti mentre distribuivano cibo a Rafah è frutto di una deliberata politica che non trova più il pieno sostegno dell’occidente e tantomeno di larga parte della società israeliana. La risposta iraniana arriva puntuale con un attacco di droni e missili di grande portata mediatica ma di pochi effetti sul campo. Naturalmente i paesi occidentali protestano dando prova ancora una volta del doppio standard con cui si condannano i crimini di guerra. L’Iran ha reagito per ‘non perdere la faccia’, spetta ora al governo israeliano decidere tra l’escalation o “prendersi la vittoria” come gli ha suggerito il presidente americano Biden. Netanyahu prende tempo, pressato dai suoi alleati della destra fondamentalista religiosa che chiedono una risposta devastante contro Teheran. In un comunicato stampa la Turchia ricordando che l’attacco israeliano all’ambasciata iraniana a Damasco, ha violato il diritto internazionale, vara misure restrittive alle esportazioni verso Israele. La mossa più che un tentativo di fare pressione su Israele, tra l’altro ci sono molti modi per aggirare le restrizioni, serve ad Erdoğan per riguadagnare consensi in quanto il non essere arrivato ad una rottura completa secondo gli analisti “a contribué à la débâcle historique […] aux élections municipales”. La sconfitta infatti è stata pesante “’ampleur de la défaite électorale, particulièrement marquée dans la plus grande ville de Turquie, révèle que Parti de la justice et du développement (AKP) n’a plus grand-chose à proposer au pays”. Il CHP mantiene Ankara, Istanbul e Izmir, vince a Bursa e conquista municipi nelle regioni conservatrici dell’Anatolia centrale e sul Mar Nero. Il partito filocurdo DEM (ex-HDP) vince nelle principali municipalità dell’Est. Crollano il Buon Partito (Iyi Parti) e l'MHP superato dallo Yeniden Refah Partisi, un nuovo partito islamista. Per la prima volta in 20 anni il CHP supera l’AKP per numero di voti (37% contro il 35%), Erdoğan ha ora di fronte due potenti avversari İmamoğlu a Istanbul e Yavaş ad Ankara. Da non trascurare anche il fatto che il numero delle donne sindaco si è triplicato (11). Per Gulistan Sonuk (DEM), neo sindaca di Batman, “Le elezioni si sono svolte tra due linee nette. Una era la mentalità che vedeva le donne come di seconda classe, e l’altra difendeva la libertà delle donne. Il pubblico ha scelto quest’ultima”. Tre le ragioni della sconfitta. In primo luogo la crisi economica, la reazione di pensionati, lavoratori e disoccupati, che si stava preparando da anni, alla fine è emersa anche perché Erdoğan non ha potuto mantenere le promesse fatte prima di queste elezioni. In secondo luogo il nuovo leader edl CHP, Özgür Özel, ha portato una nuova realtà organizzativa e un nuovo stile di lavoro avvalendosi di una squadra più giovane sostenuta dall’organizzazione del partito. Infine l’arroganza con cui Erdoğan ha scelto i candidati del suo partito, persone di secondo piano non in grado di oscurarlo in caso di vittoria, e ha cercato di imporre anche ai suoi alleati. Oltre al presidente turco i principali sconfitti sono Meral Akşener, che rassegna le dimissioni, il suo partito (İYİ) rispetto al 2023 è passato dal 6% al 3,7% e Devlet Bahçeli (MHP) che ha dimezzato i propri voti scendendo a circa il 5% finendo col perdere comuni amministrati da sempre. Per quanto riguarda il DEM si deve notare che come sempre nelle regioni dell’est e sud-est la massiccia presenza dell’esercito ha reso anche questa tornata elettorale un esempio di ingiustizia (la politica repressiva non si ferma mai e dopo due giorni dal voto a Van non viene riconosciuta l’elezione del sindaco DEM). Tuttavia bisogna notare che nelle città con una significativa popolazione di elettori curdi, i risultati hanno indicato che la politica dell’identità (curda) non ha più molta presa e i voti sono andati al CHP. Se nel campo progressista si saluta l’inizio di una nuova era  nell’altro campo si analizza la sconfitta. Subito Erdoğan convoca una riunione. Contrariamente al solito c’è una certa confusione con la stampa, dalla riunione escono due testi di cui uno non presente sulle pagine ufficiali. Il presidente ammette la sconfitta e, con estrema compostezza, ne analizza finalmente le ragioni: non fantomatiche forze antiturche ma le difficoltà economiche e lo scarso livello dei candidati. Nei media pro governativi si riconosce ad Erdoğan il rispetto della democrazia e la consapevolezza della necessità dell’AKP di imparare da quanto accaduto e di aggiornarsi. Al campo avversario si riconosce invece il funzionamento di quell’alleanza di base, fuori degli schieramenti ufficiali, cercata dopo il fallimento di quella ufficiale delle elezioni presidenziali. Detto questo però si sottolinea che il successo non ha risolto la crisi ideologica e identitaria del CHP. Il CHP dovrà affrontare sfide difficili, la maggior parte verranno dal partito curdo che cercherà di ritagliarsi uno spazio ideologico e politico. Il CHP sarà costretto a chiarire la sua retorica ambigua che continua a fare appello simultaneamente ai nazionalisti curdi, ai nazionalisti turchi e alla sinistra. Facendo le pulci ai nuovi sindaci se ne evidenzia l’inesperienza “notwithstanding some social municipalism and public relations methods that they learned from the AK Party”. Rimane poi irrisolto il problema della leadership ora che Özel, Imamoğlu e Yavaş sono diventati politici di primo piano. Premesso che la leadership di Erdoğan non è in questione e che il risultato ci dice che la classe dirigente del suo partito è ben povera cosa (il governo attuale vede ministri tecnici in tutti i dicasteri chiave), si può iniziare a pensare come Imamoğlu, se sarà lui il candidato (e vincitore) alle prossime lezioni presidenziali, possa riavvicinare le due anime della Turchia e se rinuncerà alle ambizioni neottomane in politica estera. 
  • marzo viene pubblicata la comunicazione Il giusto equilibrio sulla migrazione: un approccio equo e risoluto allo stesso tempo  - Com(2024)126. Mentre si afferma che “l'UE [si è dimostrata] un continente affidabile, che garantisce protezione a chi ne ha bisogno e si assume il ruolo di attore globale” si firmano accordi con l’ennesimo dittatore. Il memorandum UE-Egitto  foraggia con svariati miliardi di euro un regime che, a causa del crollo dei profitti derivanti dal passaggio delle navi nel canale di Suez, è  in gravissima crisi economica. Soluzioni di questo tipo rischiano di mostrarsi come rimedi temporanei se mancano di prospettiva di lungo periodo. Come accaduto per la Tunisia “l’intesa tra Bruxelles e il Cairo pone interrogativi circa la non ben definita cornice politica e strategica nella quale si dovrebbero iscrivere i rispettivi obiettivi posti in essere da Unione Europea ed Egitto nella stipula del memorandum”. Dopo Turchia, Libia e Tunisia anche all’Egitto sono consegnate le chiavi della gestione dei confini europei. Anche nei Balcani le cose non vanno bene. A due anni dalla firma degli accordi di Orhid per l’UE è riprovevole che “despite extensive efforts by the EU and the broader international community, there has been so far very limited progress by both Kosovo and Serbia in implementing the obligations they accepted under this Agreement”. In Bosnia ci si aspetta che le autorità attuino le riforme garantendo elezioni in linea con gli standard europei. Ciò nonostante nel successivo consiglio europeo vengono avviati i negoziati di adesione. A Gaza la situazione rimane disastrosa. In Cisgiordania non si fermano le confische delle terre dei palestinesi e le costruzioni di nuovi insediamenti per i coloni. Accusati di applicare doppi standard nelle loro risposte all’offensiva israeliana a Gaza gli europei vedono svanire quel soft power che per anni hanno cercato di coltivare. In maniera acritica e senza verificare in modo indipendente le accuse israeliane all’UNRWA molti paesi sospendono i finanziamenti spingendo al collasso economico dell’Agenzia ONU. Al Consiglio Affari esteri si discute di Gaza senza arrivare a conclusioni. Viene però presentato il 2024 Progress Report on the Implementation of the Strategic Compass for Security and Defence. Nel rapporto si contano i progressi verso l’implementazione necessaria per fronteggiare una guerra con la Russia, di cui Macron vede l’inevitabilità. Nella conferenza stampa al suo arrivo al successivo Consiglio europeo Borrell, smorza i toni apocalittici di Macron dichiarando che “War is not imminent” e riguardo alla situazione a Gaza dichiara che la situazione della popolazione è “unacceptable. And something which is unacceptable must not to be accepted. Otherwise, it is pure rhetoric.”. Per l’AR l’unico modo per fermare questa crisi umanitaria è che Israele rispetti i civili e consenta l’ingresso degli aiuti “Israel has the right to defend [itself], not to revenge”. Nelle conclusioni – EUCO 7/24 – Russia e bussola strategica sono al centro dei lavori. Per quanto riguarda Gaza le parole sono meno decise di quelle dell’AR Borrell ma finalmente si condanna la violenza dei coloni estremisti in Cisgiordania. Michel si rifugia nell’ovvio e continua a evocare la soluzione a due stati. All’ordine del giorno dal 1947 non ha portato a nulla in quanto “i diretti interessati non la vogliono”. Se Hamas vuole la distruzione di Israele, Netanyahu e altri ministri non hanno mai nascosto i loro piani annessionisti, negando qualsiasi prospettiva alla creazione di uno Stato palestinese. All’interno dello stato ebraico ci si chiede se Israele sia ancora una democrazia. Uno spiraglio di tregua si apre con l’approvazione all’ONU di una risoluzione per il cessate il fuoco grazie all’astensione USA. I “compiaciuti diplomatici” si congratulano tra di loro dimenticando che Israele non ha mai rispettato le risoluzioni ONU. Dall’altro lato l’Autorità Palestinese è alle prese con un delicato momento di ridefinizione della sua struttura. Ricevendo Abbas, Erdoğan si dichiara pronto ad assumere un ruolo di garante a nome della Palestina in un eventuale processo di pace, rifiutando qualsiasi ipotesi di sfollamento dei palestinesi, e ad impegnarsi per aiutare Fatah ed Hamas (che considera combattenti e non terroristi) nel cammino di riconciliazione. Tutto questo mentre tra il presidente turco e il ministro degli esteri israeliano si scatena una battaglia di invettive di stampo medievale. A oltre vent’anni dalla sua formulazione la dottrina della “profondità strategica” turca, almeno in Medio Oriente, mostra i suoi limiti nel deterioramento delle relazioni con Israele e nei rapporti sempre tesi con l’Egitto. Nel Golfo, a causa del supporto al Qatar, sono peggiorate le relazioni con Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Con la Siria vi è un cauto riavvicinamento ritenuto utile per contenere la minaccia dei curdi e per risolvere il problema dei milioni di profughi siriani registrati nel proprio territorio. Nel rapporto - Everything is by the Power of the Weapon” Abuses and Impunity in Turkish-Occupied Northern Syria - HRW disvela le violenze dell’esercito turco e dei loro alleati sulla popolazione. Va meglio in Mediterraneo dove con la Grecia sembra, al netto del contenzioso di Cipro, tornato il sereno. In Turchia tutta l’attenzione è concentrata sulle elezioni municipali. Gli occhi sono puntati su Istanbul che Erdoğan punta a riconquistare. Contro l’attuale sindaco l’Akp ha candidato Murat Kurum che ha svolto tutta la sua carriera nel campo dell’edilizia fino a divenire ministro dell’Urbanizzazione. Su entrambe le sponde la campagna elettorale è incentrata sulle prospettive di “trasformazione urbana, che significa principalmente ricostruzione ex-novo di interi quartieri a rischio sismico”. Nei cinque anni di governo questioni legate a progetti infrastrutturali ed edilizi sono state al centro di conflitti tra amministrazione locale e governo centrale. Anche se il CHP non considera la possibilità di una sconfitta, il campo dell’opposizione è scoraggiato. Mentre i commentatori favorevoli al governo amplificano i problemi del CHP, nell’altro campo oltre ad ironizzare sulla figura di Kurum (non apprezzata da tutti anche all’interno del suo stesso partito) ci si chiede quanto potrà pesare il fatto che i partiti che erano in coalizione alle presidenziali ora presentino propri candidati. Chiamando a raccolta i suoi elettori Erdoğan si lamenta che al suo comizio finale ci siano la metà del milione e mezzo di persone previste. La posta in  gioco è alta e a seconda che İmamoğlu o Kurum vincano le elezioni di Istanbul, ci sono due scenari completamente diversi. La vittoria di Kurum significherà un consolidamento politico e un’integrazione del potere su larga scala. In altre parole un’attuazione del sistema di governo presidenziale fino ai governi locali. Se İmamoğlu vince sarà sconfitto Erdoğan, non Kurum, sarà chiaro che l’elettorato turco vuole mantenere l’autonomia dei governi locali dal controllo del potere esecutivo, sarà lui il leader dell’opposizione. Questi due scenari determineranno anche l’evoluzione della politica economica. L’inflazione che attualmente tormenta l’economia turca è il risultato della politica di tassi bassi perseguita da Erdoğan per non perdere la base dei suoi elettori. È stata poi abbandonata con la nomina di Simsek al ministero del tesoro che però non è stato in grado di passare ad una modalità di vera austerità a causa delle imminenti elezioni locali.

 

  • febbraio si svolge a Tunisi, nell’ambito dell’UfM, il 5° Mediterranean Water ForumAl Consiglio europeo straordinario di inizio mese viene dato il via libera a finanziamenti aggiuntivi per il quadro finanziario 2021-2027, andranno a coprire gli aiuti all’Ucraina e le necessità connesse alla migrazione e alla gestione delle frontiere. Nelle conclusioni - EUCO 2/24 – non ci sono particolari della discussione sul Medio oriente. Sappiamo da Michel che si è discusso della situazione in Medio Oriente ma che non sono state prodotte conclusioni scritte sul tema. Nei giorni del Consiglio fa scalpore la lettera che 800 diplomatici, la cui identità rimane segreta, fanno circolare per denunciare i crimini di Israele e la complicità dei governi occidentali che hanno “fornito all’operazione militare israeliana sostegno pubblico, diplomatico e militare”. Del successivo, informale, Consiglio affari esteri, è Borrell, nella conferenza stampa al termine dei lavori ad dirci che la discussione è stata “very lively, because there are different positions among Member States” e che sono state chieste delucidazioni all’UNRWA sul caso dei dipendenti implicati nel massacro del 7 ottobre. L’A.R. precisa che la Commissione europea non ha sospeso i suoi finanziamenti all’agenzia ONU. Nel successivo, in altro formato ma sempre informale, Consiglio affari esteri, Borrell si chiede  “apart from words, what else do you think has to be done” per evitare la catastrofe di un attacco a Rafah. Per L’A.R. non è un segreto che il governo israeliano volesse sbarazzarsi dell’UNRWA già da tempo.  Ora però mentre si attendono i risultati dell’indagine occorre comunque provvedere ai bisogni delle persone. ‘Invitato’ alla riunione Lazzarini, forte dell’appoggio di Borrell, difende l’importanza della sua organizzazione come unica alternativa culturale e sociale ad Hamas e respinge le accuse israeliane. Nel consiglio del 19, questa volta formale, viene lanciata EUNAVFOR ASPIDES, operazione marittima intesa a difendere la libertà di navigazione nel Mar Rosso. Si discute della situazione in Medio Oriente, perorando una pausa umanitaria immediata, della prevista operazione militare a Rafah e della necessità che Israele si adoperi per agevolare gli aiuti e proteggere i civili. Viene anche messa ai voti una dichiarazione comune, in cui si propongono sanzioni ad entità israeliane, che però è approvata solo da 26 stati membri. L’Ungheria, mai nominata in nessun resoconto, si tira indietro. Rispondendo alle domande dei giornalisti Borrell si accontenta di avere un documento che “sin ser una posición formalmente de la Unión Europea, representa eso, una posición mayoritaria. Y, 26 de 27 es ciertamente mayoritaria. No se han adoptado las sanciones propuestas exactamente por la misma razón, porque no teníamos tampoco la unanimidad necesaria”. In ordine sparso la Francia impone sanzioni ai coloni israeliani, Belgio, Irlanda e Spagna si dicono pronti a introdurre le proprie se la situazione di stallo dell'Ue dovesse persistere. Alla riunione dei ministri degli esteri del G20 (vi partecipano per la prima volta i rappresentanti dell’Unione Africana) Borrell solleva il problema del rispetto del diritto internazionale da parte di Israele anche per ciò che accade in Cisgiordania dove non si fermano gli incentivi per la costruzione di nuove colonie e dove “extremist settlers are indiscriminately attacking Palestinian civilians”. Per questo motivo alcuni membri dell’UE e gli stessi Stati Uniti hanno adottato misure contro i coloni violenti. “What is happening in the West Bank is the real obstacle – well, there are many obstacles, but this is an important one - to the two-states solution”. La tensione nella società israeliana in vista delle elezioni municipali è sempre più forte, il governo di Netanhyau ferisce profondamente la democrazia israeliana. Il PE pubblica la risoluzione sulla relazione  “Attuazione della politica di sicurezza e di difesa comune – Relazione annuale 2023” (en) - P9_TA(2024)0105. Riferendo all’assemblea parlamentare l’AR ricorda che c’è un accordo sull’adozione di sanzioni contro i coloni israeliani violenti firmato però da 26 stati e che quindi, non essendoci unanimità, l’UE non può adottare misure restrittive. La frattura dell’Occidente riceve ulteriore conferma con il veto USA alla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che chiedeva un cessate il fuoco umanitario, immediato e definitivo nella Striscia di Gaza. Gli Stati Uniti e Israele sono sempre più isolati a livello internazionale, le loro narrazioni (e quelle di chi li sostiene) non reggono la prova dei fatti. Il fallimento morale del mondo a Gaza e le risposte non univoche dei leader mondiali ai conflitti armati in corso mettono in pericolo un ordine planetario basato su regole condivise. Il protrarsi della crisi rende l’impatto regionale della guerra di Gaza sempre più pesante per paesi arabi. In particolare per l’Egitto, che privato degli introiti del canale di Suez è alle prese con una grave crisi, e la Siria dove ad un anno dal terremoto, nelle zone ribelli del nord-est non arrivano più aiuti. Seguendo la raccomandazione del PE - P9_TA(2024)0109 – in cui si esorta ad “opporsi a qualsiasi normalizzazione delle relazioni con il regime di Assad in assenza di progressi significativi e verificabili”, Borrell conferma che, nonostante la situazione continui a deteriorarsi, non ci sarà normalizzazione con Damasco. La Siria è di nuovo teatro di aspri scontri tra forze USA e filo iraniane. Dal canto suo la Turchia ne approfitta per bombardare le regioni curde. Seguendo le indicazioni del consiglio di inizio mese che aveva riportato all’ordine del giorno il tema delle relazioni con la Turchia (per Michel era giunto il momento di lavorare nelle aree di comune interesse ed evitare “elementi irritanti”) la UE si astiene da commenti. Nonostante le prese di posizione a favore dei palestinesi, probabilmente proprio a causa del sostegno incondizionato di Erdoğan ad Hamas, a Turchia non è riuscita a proporsi come mediatore (non allenta la tensione la dichiarazione orale alla CIG sulle conseguenze legali delle azioni israeliane nei territori palestinesi occupati). Gli Stati del Golfo e l’Egitto, che pure ha riallacciato i rapporti con Ankara, non vogliono abbandonare il percorso di normalizzazione con Tel. Aviv. Anche con la Russia la bilancia pende più sulla seconda parola di quella “collaboration hostile” che segna i rapporti tra le due nazioni. Se sul piano internazionale il presidente sembra perdere colpi all’interno non si vedono segnali di cedimento. Nel periodo che precede le elezioni municipali, l’arresto di un avvocato, per le sue dichiarazioni contro la Sharia, infiamma il dibattito sul ruolo dell’Islam nella vita pubblica. Secondo i critici laici l’islamizzazione del paese si rafforza di giorno in giorno, lo provano quello succede nell’insegnamento pubblico e le sempre più aggressive campagne contro il movimento LGBT. Dopo le dimissioni forzate della Erkan il nuovo capo della banca centrale Fatih Karahan, rimanda, decisione ampiamente voluta da Erdoğan, un altro aumento dei tassi di interesse ad un ulteriore aumento dell’inflazione. La presentazione del primo aereo da caccia di produzione nazionale è un altro tassello della campagna elettorale destinato a stimolare l’orgoglio nazionale e a nascondere i gravissimi ritardi nel processo di ricostruzione post terremoto. Dopo la sconfitta alle presidenziali l’opposizione si presenta divisa. Tutti i partiti presenteranno un proprio candidato. Il partito DEM (il nuovo nome dell’HDP necessario a contrastare i possibili rischi di interdizione ancora pendenti) lo farà non solo nelle sue roccaforti dell’est curdo ma anche ad Istanbul ed a Ankara poiché la base del partito considera scarsi i risultati conseguiti con le alleanze precedenti. Il DEM rimane comunque l’ago della bilancia per decidere la sorte di Istanbul. Anche nella coalizione al potere però si nota una certa disunione. L’YRP scontento dei seggi che gli riserva Erdoğan decide di correre da solo facendo leva sulla delusione di parte dell’elettorato dell’AKP.

 

  • gennaio nei primissimi giorni dell’anno Borrell si prende il merito di aver capito tra i primi quanto fosse pericolosa la minaccia della Russia e quanto si stesse aggravando la situazione in Palestina mentre “It was widely assumed that the Palestinian issue would resolve itself”. Riferendo della sua visita a Riyad,  l’A.R. rimarca il peggioramento della situazione a Gaza e l’estensione del conflitto in Libano e Mar Rosso. “Nessuno pensava al dramma nei territori palestinesi, ma in Cisgiordania era già un dramma. E anche a Gaza. E abbiamo cominciato a pensarci e a cercare una soluzione, perché la pace tra gli Stati arabi e Israele è positiva ma non basta”. Concetti ribaditi in una intervista a Le Monde. Mentre la posizione di Borrell si fa sempre più dura nei confronti di Israele, la Von der Leyen insiste nel mettere sullo stesso piano il diritto all’autodifesa dell’Ucraina con quello di Israele. Al Consiglio Affari esteri si svolgono alcuni incontri, separati, con i ministri della regione. Si discute della catastrofe di Gaza, della necessità di sostenere l'UNRWA e degli sforzi per rilanciare il processo di pace verso una soluzione fondata sulla coesistenza di due Stati. Cosa cui però Netanhyau non acconsentirà mai sia per il sua storia politica sia perché i suoi più stretti alleati nel governo non fanno mistero di volere il “trasferimento volontario”, di tutti i palestinesi. A Gaza come in Cisgiordania “où les colonies ne cessent de se multiplier et où les colons radicalisés, sous l’œil complice de l’armée, ne cessent d’attaquer et de spolier les Palestiniens”. Egitto e Giordania però ribadiscono l’opposizione a qualsiasi rioccupazione israeliana nella Striscia e il diritto dei residenti a tornare alle loro case. Il conflitto ha ripercussioni su tutti gli stati della regione e la deflagrazione di una guerra generalizzata è possibile in ogni momento. Anche se la situazione bellica non dovesse precipitare, rimangono sul terreno le norme del diritto internazionale, prontamente applicate contro Hamas e la Jiahd ma carta straccia nei confronti di Tel Aviv. In questo contesto la denuncia di Israele alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) da parte del Sudafrica costituisce per molti “the last, dying breath of a dysfunctional, Western-led international system”. La denuncia manda in “pezzi la facciata di moralità e rettitudine che Israele e Stati uniti rivendicano”. Nonostante le pressioni la CIG respinge la richiesta di archiviazione e decide di procedere nella verifica delle accuse di genocidio. La decisione, presa con 15 voti a favore e 2 contrari, è solo una sentenza preliminare ma ha un alto valore politico. Impone a Tel Aviv di adottare misure immediate per consentire assistenza umanitaria nella Striscia e di riferire alla Corte entro un mese “senza alterare […] prove dei presunti crimini commessi a Gaza”. La sentenza, che pure non ordina il cessate il fuoco, provoca feroci reazioni nel governo israeliano che non ha alcuna intenzione di fermare la mattanza. Nella stessa Israele però voci non isolate parlano di genocidio  e si scagliano contro chi “find antisemitism in anyone who isn't a fascist like them”. L’UE ricorda che le ordinanze della CIG sono vincolanti per le parti e queste devono rispettarle. Anche se i Paesi europei hanno opinioni diverse su questa decisione “it is essential that they now unite to fully support the ICJ’s decision and demand the implementation of the measures it imposes”. È con grande sconcerto che viene appresa la notizia che membri dell’UNRWA potrebbero essere coinvolti nell’attacco del 7 ottobre. Parlando con Gutierrez, Borrell per ora conferma gli impegni di finanziamento in corso ma le prossime decisioni saranno legate all’esito dell’indagine. Poiché l’UNRWA è l’unica realtà che può “dare effettività” all’ordine della CIG assicurando gli aiuti, bloccarne i finanziamenti di fatto rende vana la sentenza. Da un lato abbiamo “le misure cautelari della Cig per prevenire un genocidio, dall’altro le contro-misure mortali dell’occidente affinché le prime siano neutralizzate. Una meta-punizione collettiva”. In Turchia le manifestazioni di appoggio alla causa palestinese richiamano migliaia di persone. I commentatori vicini ad Erdoğan, come molti, si dicono convinti che la realtà sul terreno e l’inerzia del mondo rendano impossibile la creazione di uno Stato palestinese. In più, esplicando il pensiero del presidente, sostengono che anche gli stati arabi non vogliono lo Stato palestinese e che impediscono ad altri stati musulmani di cercare una soluzione. La soluzione a due Stati sarà possibile quindi solo dopo “radical changes in the global balance of power or the success of the Palestinian resistance against the occupation”. Anche l’intervento militare occidentale in Mar Rosso viene criticato dalla Turchia che però cerca di inserirsi nei giochi così come, alla stregua di Israele lascia (intanto si riunisce il Gruppo di Astana) senza elettricità i curdi siriani colpiti da massicci bombardamenti. La ratifica del parlamento turco all’adesione della Svezia alla Nato sblocca immediatamente la vendita degli F-16 ad Ankara e, nel quadro del rafforzamento Nato in Mediterraneo, degli F-35 ad Atene. In un discorso al MIT (National Intelligence Organization) Erdoğan riafferma che “Every decision we take in domestic and foreign politics and every policy we implement is completely based on Türkiye”. Ciò riporta lo sguardo al contesto politico interno dominato dalla campagna elettorale per le amministrative del prossimo marzo.  La partita principale si gioca nelle grandi città, su tutte Istanbul e Ankara, che il presidente turco punta a riconquistare. A Istanbul al popolare sindaco uscente Imamoğlu, che punta a un secondo mandato, l’Akp contrappone l’ex ministro dell’Ambiente e dello Sviluppo urbano Murat Kurum La designazione di Kurum, figura meno popolare di altri membri dell’AKP, rientra nella strategia del presidente di puntare sullo sviluppo urbano come cavallo di battaglia della campagna elettorale. Inoltre Kurum ha il sostegno del settore edile pronto ad approfittare della nuova legge sulla rigenerazione urbana antisismica e della conseguente  campagna di espropri e ricostruzione. Ciò permetterà “a costruttori e amministrazioni di aggirare le tutele ambientali e del patrimonio culturale e l’opposizione dei residenti” i quali, non potendo sobbarcarsi dei costi della ricostruzione, saranno cacciati dalle loro case. La scelta di Kurum è dettata anche dal fatto che l’opposizione non presenterà un candidato unico e Imamoğlu non avrà il sostegno di Meral Akşener e del suo partito. Dopo la sconfitta alle presidenziali “the CHP, not President Recep Tayyip Erdoğan’s ruling Justice and Development Party (AKP), appears to be the central target for nearly all opposition parties in their local elections campaign”.  Anche le vicende legate all’attività della banca centrale sembrano legate alle strategie verso le amministrative. Se da un lato si assiste ad un ulteriore aumento al 45% del tasso di interesse di riferimento per combattere l’inflazione, dall’altro viene dichiarato che ci sarà una pausa in questi rialzi. Altro segnale è costituito dagli attacchi che la governatrice Erkan deve subire mentre “Political rumours have been restless as the rumours of Erdoğan’s discontent with the new management”. Non ultima la vicenda deputato Can Atalay mette in luce lo scontro tra la Corte Costituzionale e la Corte Suprema d’Appello.